Mister fantastic

Il rapporto tra Marco e suo padre Alfonso degenerò definitivamente dopo il suo diciottesimo compleanno. Da piccolo ovviamente Marco non poteva capire, da adolescente si ritrovò semplicemente a subire le sue stranezze, le sue violenze verbali e non solo, la sua arroganza. Alfonso aveva un soprannome poco lusinghiero, anche se per qualcuno può avere un’accezione anche positiva. Lo chiamavano “Mister Fantastic”, come il personaggio dei Fantastici 4, il fumetto americano della Marvel, e purtroppo non perché fosse una persona eccezionale, ma più che altro perché già da sobrio raccontava storie poco credibili, che con un paio di “rossi” diventavano palesemente inverosimili. Quando non beveva bisogna riconoscere come risultasse ai più una persona simpatica (almeno dal di fuori) e con una discreta cultura personale, anche se spesso finiva per mostrarsi come un tuttologo del niente. A parte la tendenza ad esagerare le situazioni che lo riguardavano, come a voler passare da eroe o protagonista della situazione, farci un discorso non era sgradevole. A meno che uno non dovesse conviverci. Gli amici di Marco, specialmente da ragazzi, facilmente impressionabili alle avventure di Signor Alfonso, rimanevano incantati dai suoi racconti e spesso si fermavano a cena da loro. Si mangiava bene da Alfonso e Vannina e a lui sembrava apprezzare questa compagnia giovanile. Quando però i ragazzi iniziarono a crescere e Alfonso a stappare qualche bottiglia a cena, a Marco quelle serate iniziarono a non piacere più. Anche perché qualche suo amico finì per fare il gioco del padre e uno in particolare, andandosene da casa loro lievemente brillo dopo una cena, cadde rovinosamente dal motorino. La lite coi genitori del ragazzo non fu sicuramente un bello spettacolo.
Marco da piccolo era molto intimorito dal padre, si spaventava molto per le sue urla potenti e imponenti, come lui. Marco invece, dalla sua, non aveva neanche il fisico, e quando Alfonso era “in forma” non mancava di certo di farglielo notare davanti a tutti: amici, parenti o conoscenti che fossero. “quello scheletro di mio figlio”, “femminuccia”, “guardalo, se lo prendo la distruggo quella mezza sega” e giù di risate tanto forti da farlo diventare paonazzo. Giusto per ribadire chi fosse a comandare in famiglia. Ogni tanto lo apostrofava con veri e propri insulti senza porsi alcun problema. Marco taceva ma non gradiva, e quando erano soli litigavano. Finiva sempre male per il ragazzo sovrastato, ancora una volta, dalle urla e, quando adolescente, anche da qualche ceffone gratuito.
Vannina sopportava in silenzio, o forse si estraniava dalla situazione. A volte sembrava andarle tutto bene, altre volte preferiva prendere i piedi e andare a farsi una passeggiata. Incassava bene le urla del marito, la sua puzza di vino dopo una serata di bagordi: non si scomponeva, non reagiva, non piangeva. Come se non fosse successo niente. Il figlio col tempo incominciò a chiedersi il perché della muta sopportazione della madre per tutti gli eccessi del padre: per le apparenze? Per la paura di rimanere sola? Per la mentalità antica? Perché aveva un carattere remissivo? Alla fine non riuscì a dare una risposta a questa domanda, e pur non colpevolizzando del tutto la madre riteneva anche lei un po’ responsabile della situazione famigliare.
Marco, tuttavia, portava dentro sé altri ricordi infelici. Uno di questi è quando da ragazzo il padre lo spinse a fare la stagione in un ristorante gestito da uno dei suoi tanti amici, che si rivelò essere il classico sfruttatore che trattava i dipendenti come bestie da soma. Una sera Alfonso andò a mangiare lì con dei suoi conoscenti e incominciò a prenderlo in giro mentre lavorava. Oltre a rimanere seduti per ben due ore oltre l’orario di chiusura, situazione che scatenò il malumore in tutto il personale. Marco decise, dunque, di unirsi ai colleghi e parlare al titolare che, senza scomporsi, fece avvicinare un Alfonso più che alticcio. La serata finì con Marco umiliato davanti a tutti e che rimase da solo a sistemare il locale, perché il resto del personale, nel mentre, se ne tornò a casa. Dopo quell’episodio si rifiutò categoricamente di fare altre stagioni, nonostante furiosi litigi col padre all’alba di ogni estate, che al rientro dalla prima spuntinata in campagna di qualche amico, lo apostrofava puntualmente sempre con la stessa frase: “non hai voglia di fare un cazzo, non vedo l’ora che te ne vai di casa”.
Uno dei momenti topici dei dissidi tra il Marco e suo padre fu la sua laurea. Qualche giorno prima, infatti, Alfonso disse che non ci sarebbe andato perché aveva “da fare cose più importanti” senza specificare cosa. In effetti non c’era nessun affare importante da dover portare a compimento, voleva solo ferire il figlio. Alla laurea, inoltre, che si svolgeva nel tardo pomeriggio, Alfonso si presentò dopo un corposo aperitivo con qualche parente, disturbando durante la discussione e la proclamazione sia del figlio che di altri candidati, e scatenando oltre l’imbarazzo di Marco anche le ire del presidente di commissione che sospese la seduta fino all’allontanamento dell’uomo, minacciando di chiamare la forza pubblica.
Anche gli episodi che non riguardavano direttamente Marco si sprecavano. Una notte Alfonso venne riaccompagnato a casa da un poliziotto in borghese. Aveva combinato un macello nella piazza del comune ed era finito in mezzo a una rissa. La fortuna fu che il poliziotto era un compaesano di Vannina che le disse: «Mettitelo a letto o altrimenti lo devo sbattere in galera». Vannina abbassò lo sguardo dalla vergogna e lo buttò con le poche forze che aveva sul divano.
Un’altra volta in una lite dopo una partita a carte, una delle tante passioni di Alfonso, si ritrovò senza un incisivo dopo una scazzottata. Il gioco delle carte, il gioco in generale, era un altro dei problemi che lo attanagliavano. Perché il poker era una sfida che gli piaceva molto, e a poker giocava forte e naturalmente a soldi. Come detto, questa passione gli costò un dente, mentre per coprire un altro debito di gioco finì per impegnarsi il motorino del figlio, tanto: “è mio, l’ho pagato io e ne faccio quello che voglio” disse a casa per giustificarsi. Nessuno si oppose. In realtà a Marco giunsero voci che il dente del padre fosse stato il prezzo da pagare per aver esagerato una volta di troppo con la donna sbagliata. Perché anche fare il cascamorto con ogni essere femminile che gli si palesava davanti era un altro dei suoi passatempi preferiti specialmente se aveva già usufruito di qualche bicchiere di coraggio liquido. Lo faceva senza neanche nascondersi troppo. E sempre nel silenzio di Vannina che evitava di fare qualsiasi mossa.
Il vizio della bottiglia (così come quello delle donne), purtroppo, era di famiglia; infatti, anche il nonno di Marco ne combinò parecchie, e lui e Alfonso finirono quasi per arrivare alle mani durante una battuta di pesca. La pesca era una delle più grandi passioni di Mister Fantastic. Marco la odiava, e la odiò ancora di più a quindici anni, quando il padre lo obbligò ad andare con lui svegliandolo alle cinque di mattina palesemente alterato. E non solo, lo costrinse anche a infilzare delle esche vive nell’amo per la pesca grossa. Questo gli provocò un tale disgusto che finì per vomitare all’interno della barca, perché non fece in tempo a sporgersi verso l’acqua. Per questo episodio, il padre lo riempì di insulti costringendolo a stare in seduto senza far niente fino al ritorno a casa.
Purtroppo le sue insicurezze si riflettevano anche nella sua sfera personale. Da quando aveva compiuto diciotto anni frequentava lo psicologo del consultorio, e continuò anche quando decise di trasferirsi per studiare. Aveva deciso di farlo dopo un episodio che lo colpì particolarmente. Senza quasi rendersene conto, infatti, aveva incominciato a raccontare ai suoi amici delle storie che si stavano rivelando decisamente esagerate e poco credibili. All’inizio qualcuno pendeva dalle sue labbra, quando però i racconti iniziarono ad avvicinarsi pericolosamente al limite del ridicolo, gli amici incominciarono a non dargli più peso, fino a quando uno di loro gli disse che sembravano le storie che raccontava suo padre. Questo lo svegliò improvvisamente e decise, da solo, di cercare un appiglio per non diventare come lui.
Non fu mai troppo sicuro che lo psicologo lo aiutasse, ma gli bastava anche parlare delle sue difficili situazioni, che somatizzava frequentemente attraverso l’insonnia sin da ragazzo, e che lo condizionò non poco. Lo studio infatti fu un altro dei suoi più grossi scogli. Ebbe diversi problemi alle superiori, non riusciva ad applicarsi come avrebbe voluto o potuto e per questo diplomarsi per lui fu faticoso. Dopo la laurea triennale conseguita non senza essere uscito fuori corso nell’università più vicina a casa, decise che era il momento di cambiare aria, e di trasferirsi altrove. Iniziò a lavorare per pagarsi gli studi, perché da casa i fondi, che comunque non sono mai stati particolarmente ingenti, vennero tagliati.
Non portò mai nessuna ragazza a conoscere i suoi, seppur qualcuna riuscì a frequentarla. Le storie duravano poco, una si stufò del fatto che Marco la teneva nascosta alla sua famiglia; due vennero lasciate da Marco stesso. La prima fu Claudia, quando avevano entrambi poco più che vent’anni. Non era un rapporto delizioso il loro. Claudia era abbastanza gelosa e possessiva. Inoltre le piaceva fare un po’ la vittima. Pare che anche suo padre avesse qualche problemino. Marco era abbastanza paziente, con tutto quello che aveva visto e subito gli scleri non proprio maturi di una ventenne non gli davano chissà quali noie. Ma quando lei, all’ennesima scenata, dove dopo un lunghissimo preambolo concluse dicendogli che lui non aveva la minima idea di cosa volesse dire avere problemi a casa, Marco non ci vide più: la mandò a quel paese e tagliò i ponti. La realtà è che era lei a non sapere di lui, ma era proprio per volontà dello stesso Marco a non sapere niente. La seconda ragazza, Gioia, Marco la conobbe e frequentò per quasi un anno e mezzo. Era il suo secondo semestre all’università e lei frequentava la sua stessa facoltà. Si era anche confidato con lei, spiegando quali erano i demoni che lo affliggevano. Lei non giudicò, decise di rispettare i suoi tempi in tutto, ma alla fine decise di lasciarla -almeno nella sua testa- per il suo bene. Non poteva portarla a casa, non poteva sottoporla a quello spettacolo che prima o dopo si sarebbe palesato davanti ai suoi occhi, non poteva essere umiliato davanti a lei, già sapendo che non avrebbe reagito come avrebbe sempre voluto fare. Marco era innamorato di Gioia, provava per lei qualcosa che non aveva mai provato prima, ma aveva troppa paura di coinvolgerla nel suo vortice di disastri.
Prima di maturare la definitiva decisione di andarsene da casa per finire gli studi altrove, Marco aveva tentato anche la strada degli alcolisti anonimi. Aveva preso coraggio e fatto tutto da solo, senza neanche coinvolgere Gioia. Inizialmente non disse niente neanche in famiglia, fu un manifesto affisso nell’androne del consultorio a fargli effettivamente considerare questa ipotesi, ignorata fino ad allora.
La prima volta che si recò nella sala dove si riunivano era quasi terrorizzato, ma uno dei responsabili dell’associazione lo mise a suo agio e lo invitò a parlare della sua situazione. Marco cerco di essere il più obiettivo possibile, senza lasciarsi andare alla facile emotività e alla rabbia. Successivamente si presentò al resto del gruppo e raccontò anche a loro la sua storia. In quella piccola platea erano presenti tante vite diverse: gente che combatteva quotidianamente, gente che aveva perso qualcuno a causa dell’alcool, gente che sembrava avercela fatta ed era lì con fratelli o figli, gente che provava a ricominciare per l’ennesima volta. Perché ci vuole tanto tempo e forza di volontà per uscirne, ma basta un secondo per ricaderci, per cancellare quanto di buono fatto. A Marco si aprì un mondo nuovo e una speranza, quella di portare il padre con lui. E anche la madre.
Purtroppo fu tutto inutile, quando provò a parlare con il padre dell’associazione, Alfonso fece una delle sue orribili risate e finì per inveire contro il figlio. Marco non era più un ragazzino, ora riusciva a tenere testa al padre che non si azzardava più ad alzare un dito su di lui. Ci provò diverse volte. Fu tutto inutile. Alla fine Marco continuò lo stesso a frequentare l’associazione, più per sé stesso che per il padre. Per mantenere un suo equilibrio mentale. In tutto questo la madre non prese alcuna posizione. Rimase trincerata nel suo castello di silenzi, e preferì non accompagnare mai il figlio alle riunioni.
Anche quando si trasferì per studio rimase in contatto con il suo gruppo di supporto, ma non ebbe il coraggio di trovare un gruppo simile nella nuova città; anche perché lo studio e il fatto di doversi comunque trovare un lavoro per mantenersi non gli lasciava molto tempo per pensare ad altro. Sentiva molto raramente anche casa e di solito parlava con sua madre. Rientrava giusto qualche giorno a Natale, salvo pentirsene subito dopo per le solite problematiche famigliari.
Quell’ultimo anno neanche era andato a trovarli. Aveva trovato un lavoro per le feste e doveva studiare. Una sera di inizio marzo, mentre ormai era all’orizzonte la fine del suo percorso universitario, ricevette una telefonata dalla madre. I genitori gli avevano tenuto nascosto che il padre non stava bene da diversi mesi e aveva aspettato troppo a farsi controllare. Le era stata diagnosticata una insufficienza epatica cronica e un cancro al pancreas. Inoperabile. Neanche sapeva che fosse ricoverato. La madre lo aveva chiamato solo per comunicargli che il momento si stava avvicinando e che se lo voleva vedere era il caso di partire. Per un secondo gli si bloccò il fiato, ma tornò immediatamente lucido. Pensò che sarebbe stato bello fregarsene, ma non poteva non andare da lui in quel momento. Prese il primo aereo diretto e si recò direttamente in ospedale senza neanche passare da casa. Quando vide il padre gli sembrava completamente diverso. Della sua imponenza non era rimasto nulla, della sua baldanza neanche. Niente più Mister Fantastic, solo il povero Alfonso molto vicino alla sua fine. In quella stanza lo trovò solo, non c’era nessuno dei suoi mirabolanti amici, nessun parente stretto. Anche Vannina si era allontanata dalla camera in quel momento. Marco si sedette ad aspettare di fianco al letto. Il padre aprì gli occhi, lo guardò e gli disse: «Figlio mio, stavo solo aspettando di vederti. Io ti volevo chiedere scusa, mi rendo conto di aver sbagliato tanto con te. Ti ho sempre voluto bene, credimi.»
Marco realizzò in quell’istante che quelli potevano realmente essere gli ultimi secondi del padre. Fece un respiro profondo e gli prese la mano: «Papà, è troppo tardi per chiedere scusa. Addio.»
In quel preciso istante Alfonso distolse lo sguardo dal figlio e le macchine che lo monitoravano incominciarono a fare dei rumori i. Marco lasciò la mano del padre e nello stesso momento Vannina entrò nella stanza rendendosi conto che il marito era appena morto.
Marco guardò la madre senza neanche salutarla e uscendo dalla stanza le disse: «Senti, avvisa chi vuoi, io devo fare una telefonata.»
Marco corse per le scale fino ad uscire dalla porta principale dell’ospedale, come se all’interno gli mancasse l’aria. In quei pochi metri tutta la vita gli passò davanti. Prese il telefono e compose un numero: «Ciao Gioia, so che è tanto tempo che non ci sentiamo. Sono all’ospedale, mio padre è appena morto e non ho la minima idea di come mi sento».
Dopo un secondo di silenzio che sembrò durare un’eternità, Gioia rispose semplicemente: «sto arrivando».
Scritto da Tancredi Bracco