L’effimera bellezza di un mondo virtuale

Cosa vuoi fare da grande?
Ricordo ancora vividamente quel pomeriggio inoltrato di inizio maggio, 8 anni fa. Mi ero recato, come al solito, dall’insegnante privato che mi faceva ripetizioni di grammatica latina e greca, poiché negato in queste due materie. Frequentavo il terzo anno di superiori al liceo classico, ed essendo queste le due materie portanti degli studi della scuola, dovevano essere conosciute ad un livello relativamente alto e specifico. Partecipavo alle lezioni di recupero perché mia madre mi aveva intimato che era necessario farle e che fosse la soluzione migliore per risolvere il problema dei miei voti che molto spesso, se non sempre, erano sotto il 5.
In tutta onestà, le davo ciecamente retta: non ero sicuro di cosa volessi fare, né perché stessi studiando latino e greco, e soprattutto non avevo idea del perché mi stessi cimentando in uno studio che non aveva alcuna rilevanza personale per la mia vita. Andava fatto perché dovevo passare la maturità, e questo era quanto. Poi ovviamente avrei studiato lingue straniere e mi sarei concentrato su inglese, diventando un traduttore. Non c’è che dire sul fatto che mio padre e mia madre avessero le idee chiare su cosa volessi fare e quale fosse il modo migliore di approcciare la vita per arrivare ad un lavoro stabile e continuativo. Al tempo, vedevo il mondo come qualcosa di grigio e spento, pieno di sofferenza ed insoddisfazioni, e non avevo un vero e proprio obiettivo sul quale indirizzarmi, seppure ci avessi pensato più e più volte.
Quindi, quando, durante una delle tante lezioni piene di desinenze e accusativi, il mio insegnante privato mi chiese che cosa volessi fare dopo aver passato la maturità, rimasi a pensare per qualche minuto. È strano come in quel momento avessi trovato, nei meandri della mia mente, qualcosa a cui genuinamente aspiravo. “Mi piacerebbe fare lo psicologo”, risposi. “Sai, esplorare la mente umana e studiarne i processi per capirne di più su come pensiamo e come ci approcciamo alle situazioni”. Ricordo ancora che fu una delle risposte più genuine che avessi mai dato nella mia vita. Ricordo pure come, guardandomi sconsolato, l’insegnante mi fissò prima di parlare. “Sai Alessandro, sarebbe meglio se ti concentrassi su qualcos’altro” disse, seguendo con un sorriso. “È meglio non complicarsi la vita quando si hanno già dei problemi a riguardo”.
Di primo acchito rimasi un po’ interdetto alle sue parole, in quanto credevo, per la prima volta nella mia vita, di aver trovato una risposta giusta alla domanda postami. Realizzai poi, quanto sciocca la mia supposizione fosse stata. L’insegnante ne sapeva sicuramente più di me, in quanto mi stava dando ripetizioni, ed era un adulto al contrario di me, quindi sapeva già a cosa stessi andando incontro. È in quel momento che sotterrai completamente la mia già debole e appena nata aspirazione a diventare uno psicologo. E non l’avrei più ripresa in considerazione per diversi anni a venire.
A parte quel particolare pomeriggio, a cui la mia memoria ripensa vividamente come se fosse ieri, non ho ricordi molto variegati dei miei anni al liceo classico. Tutto ciò che ricordo è che, piuttosto che impegnarmi e spronarmi per arrivare alla maturità ci venni invece trascinato, in parte dai miei genitori, in parte dai professori, attraverso la miriade di materie e verifiche una più vicina dell’altra. Per anni rimasi in un costante silenzio e riservatezza, nati dall’approccio della maggior parte dei nostri insegnanti alla classe, dove tutto era visto come una possibile competizione.
Essendo privo di obiettivi e aspettative, ero molto spesso l’ultimo della classe e comparavo costantemente i miei voti con quelli degli altri, attività che molto spesso finiva per deprimermi in una continua inerzia. Tanto che, ad un certo punto, alcuni dei professori si innervosirono così tanto da iniziare a prendermi di mira, creando un continuo stato di tensione e paura che durò per tutti e 3 gli ultimi anni, basato su un mix di giudizio e pregiudizio terribilmente negativo nei miei confronti. In questo punto della mia vita, vedendomi con gli occhi del presente, non posso che descrivermi come un ragazzo privo di aspettative e permanentemente stressato, con la paura del presente e del futuro derivatomi da un ambiente e un approccio che mi avevano completamente “svuotato”. Per me la vita non aveva senso di esser vissuta.
Superiori e primi contatti
Ciò che mi spinse ad approcciare il mondo sociale online accadde nel terzo anno di superiori. A quel punto della mia vita passavo già molto tempo davanti al computer, e vedevo internet, in parte, come una via di fuga dal dolore e stress del mondo reale. Un mio carissimo amico (con il quale ancora mi frequento) mi regalò per il mio compleanno un videogioco MMO (Massive Multiplayer Online) con abbonamento iniziale di un mese gratis (gli MMO più famosi hanno un pagamento mensile per supportare nuovo contenuto aggiunto di mese in mese). Il videogioco, Final Fantasy XIV Online, era un videogioco di genere fantasy basato sulla famosissima serie di Final Fantasy, e avevo espresso già da qualche tempo al mio amico quanto mi piacessero i videogiochi di quel franchise. A prima vista tuttavia, vedendo il regalo, non seppi che farmene. Avevo già sentito parlare di MMO e non avevo veramente intenzione di iniziare qualcosa che doveva essere pagato mensilmente per giocarci. Ringraziai quindi il mio amico, riscattai il videogioco e lo lasciai a prendere polvere per circa 4-5 mesi.
Fu in un giorno qualsiasi, dopo una stressante giornata di scuola, e relativamente annoiato, che presi in considerazione l’idea di dargli un’occhiata. La cosa che mi attrasse fu l’abilità di creare il proprio personaggio, dandogli caratteristiche e aspetto desiderato, con un mio interesse specifico verso la razza Miqo’te (i cosiddetti “Catboys”, Ragazzi Gatto, con coda e orecchie da gatto), con un aspetto che mi piacque sin dall’inizio. Mi sentii veramente felice nel creare un personaggio che mi rappresentasse in quel mondo, con un aspetto idealizzato e immacolato che è presente solamente nel virtuale, e del quale mi affezionai immediatamente. Vi era una sorta di attrazione personale verso il mio personaggio che fu solamente amplificata dall’enorme mondo che il videogioco mi mostrò: ero un avventuriero che avrebbe viaggiato il regno e sarebbe diventato conosciuto in lungo e in largo come l’eroe di quel mondo. Per non contare il fatto che essendo multigiocatore potevo incontrare tantissime persone da luoghi completamente diversi dal mio, con cui sarei stato in grado di comunicare senza avere il peso costante della mia realtà e vita.
Il videogioco mi mise su un piedistallo. Mi sentii immediatamente rinvigorito e immerso, ed empatizzai enormemente con il mio personaggio. Iniziai immediatamente ad amarlo come videogioco e come realtà alternativa, così tanto che cominciai a trascurare ancora di più compiti e studio mentre andavo avanti nella storia. Il mondo in cui viaggiavo era fresco, bellissimo e colorato. Ero l’eroe che vinceva sui cattivi e che veniva apprezzato da tutti per le azioni che faceva e le persone che salvava. Le battaglie che solo io potevo affrontare mi davano tante emozioni e brividi di commozione. Non me ne accorsi, ma Final Fantasy XIV mi inghiottì nel suo vortice di bellezza e lode costante. La depressione e tristezza che avevo in classe era equilibrata dal piacere che avevo giocando. Fu in questo contesto, nel quale amavo il videogioco sempre di più (ed ero sempre più ammaliato dalla bellezza del mio personaggio) che feci le mie prime comunicazioni sociali online. Trovai un gruppo di persone che giocavano insieme (chiamata molto spesso gilda in contesti online), mi unii a loro e apprezzai il modo in cui, seppur solo in modalità scritta, le persone interagivano tra di loro, con l’utilizzo di emotes (animazioni dei personaggi) ed emoji. Iniziai a comunicare in un contesto più profondo invece di giocare e basta: conobbi persone, la loro età, i loro hobby, le loro personalità. E tutto mi sembrava bellissimo.
Successe poi che, fuori dal nulla, mi innamorai.
Fu un colpo di fulmine a ciel sereno. Lo conobbi mentre esploravo in giro il mondo virtuale che tanto apprezzavo. Era anche lui Miqo’te, e aveva un personaggio molto attraente. Talmente affascinante che iniziai immediatamente a corteggiarlo nei giorni successivi; non ci volle molto prima che ci mettessimo insieme. Fu la mia prima relazione amorosa, una relazione a distanza con una persona che non avevo conosciuto direttamente, ma solamente tramite interazione scritta e con il suo personaggio virtuale. Ero così tanto infatuato che non pensavo ad altro. Tutto ciò che contava per me era come appariva nel mondo online, come la nostra relazione si evolveva in quel contesto e nessun altro. Per me non esistette altro che lui per mesi. Pensavo di essere finalmente riuscito a trovare qualcosa per cui vivere, e lui era perfetto ai miei occhi, tanto che non riuscivo ad allontanarmici un solo momento. Andare a scuola era diventato una perdita di tempo, e pensavo solamente a lui e ciò che avevamo nel videogioco. Non vedevo l’ora di tornare a casa per passare più tempo assieme.
Tuttavia, arrivò il momento in cui cominciò a mostrare disinteresse e fastidio del fatto che lo seguissi ovunque per tutto il giorno, e il suo evitarmi iniziò a causarmi ansia e stress. Sentivo che lo amavo con tutto il cuore, avrei dato tutto me stesso per farlo felice, perché in quel momento stare insieme a lui (o per meglio dire, il suo personaggio virtuale) era l’obiettivo della mia vita. La trepidazione di tornare a casa si tramutò in ansia per controllare cosa stesse facendo. Ogni secondo via dal videogioco era puro dolore, e non riuscivo a mantenere la calma, tanto che il mio corpo cominciò a risentirne: persi peso e appetito. Cercai di stargli vicino, di confermarmi che in realtà mi amava e che voleva solamente dello spazio, mentre continuavo a premerlo ossessivamente per stare insieme il più tempo possibile.
Mi “tradì” varie volte con altri giocatori, si “innamorò” di altri mentre io soffrivo a causa della mia ossessione, incapace di avere un controllo su me stesso e sulla situazione. La mia fissazione per lui, assieme al suo disinteresse e il voler chiudere la faccenda prima possibile furono così tanto emotivamente pesanti che finimmo per danneggiarci a vicenda: il mio corpo e mente finirono al limite, e fui totalmente incapace di prepararmi per l’ormai vicino esame di maturità. Oltre a ciò le discussioni e relazioni con i miei genitori raggiunsero il limite e crollarono. Lui finì all’ospedale dopo varie tentate autolesioni.
La relazione si chiuse così. Non perché uno di noi l’aveva voluta terminare, ma perché eravamo così tanto mentalmente e fisicamente danneggiati che finimmo per allontanarci l’uno dall’altro, a causa dell’esasperazione dataci a vicenda. Passai l’esame di maturità a stento, apparentemente pronto ad approcciarmi al nuovo mondo dell’università. Ancora mentalmente ferito, e con un obiettivo in cui avevo creduto con tutto il mio cuore -ora una bugia- riuscii a malapena a continuare i miei studi. Persino il mio migliore amico fece fatica a comunicare o parlare con me durante quel periodo e in parte anche negli anni successivi.
Tutto quello che mi rimaneva erano i pezzi rotti della mia forma mentis, che trovarono immediatamente un rifugio in quel mondo virtuale che tanto amavo e apprezzavo, nel quale pensavo ancora di poter vivere.
E quindi, avviandomi verso l’università, rinnegai il mondo reale e tutto ciò che faceva parte di esso, compresi amici, famiglia, e me stesso.
Università, Traumi, Realtà
I miei primi anni all’università non furono migliori di quanto avessi già sperimentato alle superiori. La prima scelta che dovetti fare fu quella del campo sul quale volevo approfondire e basare il mio futuro. Essendo uscito dalle superiori in uno stato pietoso (così pietoso che perfino i professori e compagni di scuola si erano gravemente preoccupati della mia salute fisica e mentale) e senza un vero e proprio obiettivo, non seppi propriamente rispondere a mio padre quando mi chiese se avessi deciso cosa fare davanti alla segreteria per le iscrizioni.
Incapace di arrivare ad una decisione, mio padre e mia madre scelsero per me. Mi iscrissi all’università di Lingue Straniere per studiare inglese (nel quale ero molto versato anche grazie alla mia vita virtuale) e spagnolo. Sarei probabilmente potuto diventare un traduttore, mi diceva mia madre, e non sapevo che rispondere a quell’affermazione. Mi adeguai, come al solito, e seguii le direttive dei miei.
Tuttavia il primo anno di università non frequentai alcuna lezione e diedi solamente un esame. Ero spaventato e smarrito dal nuovo ambiente e dalle nuove responsabilità cadutemi sulle spalle nel momento in cui avevo scelto di frequentare l’università. Nei primi anni non feci alcuno sforzo nella ricerca di nuove amicizie, né cercai di concentrarmi particolarmente sugli studi. Tutto ciò a cui pensavo durante lo svolgimento delle lezioni era di tornare a casa per essere finalmente in grado di giocare di nuovo a Final Fantasy XIV, e di scappare dalla mia vita.
Alcuni mesi dopo, essendomi gradualmente ripreso dalla perdita del mio primissimo amore, presi un approccio completamente diverso nel contesto socio-virtuale e mi lasciai completamente andare. Mi buttai nelle relazioni virtuali, cercai di conoscere il più persone possibili, provando a soddisfare la mia costante necessità di essere felice, di ricercare un piacere perpetuo. Ciò che non potevo avere nella realtà era possibile nel mondo di Final Fantasy XIV. Ero attraente, perfetto, e volevo essere desiderato. Cambiai l’aspetto del mio personaggio, lo resi più bello, affascinante. Lo definii il mio ideale di bellezza, tanto che ne rimasi io stesso ammaliato. Era tutto ciò che io potessi volere.
Quindi, ignorando nuovamente la realtà, mi cimentai nell’arte della seduzione online: cercai di annegarmi nell’amor liquido virtuale, facendo ogni giorno gioco di ruolo e sexting (lo scrivere atti sessuali tra due persone che si soddisfano a vicenda, con focus i due personaggi che si sono creati), ricercando assiduamente quel piacere che era oramai principalmente, se non totalmente, sessuale nei confronti di altri individui. Mi sentivo in cima al mondo poiché ero voluto da tutti, e questo desiderio da parte degli altri mi provocava scosse di piacere, di cui tanto avevo bisogno. Tutto ciò era alternato dalla mia indifferenza nei confronti di con chi stavo parlando, e spesso terminavo le relazioni che avevo avuto senza curarmi di che pensasse l’altro. L’anonimato che mi nascondeva dietro allo schermo e la bellezza ideale che mi ero costruito mi avevano permesso di fare ciò che non avrei mai potuto fare nella mia vita reale. Capisco ora che le mie azioni furono una ricerca, un tentativo di replica dell’amore e felicità che tanto avevo sentito nel primo periodo in cui avevo giocato a Final Fantasy XIV, e che mi aveva permesso di fuggire da tutto e tutti, anche da me stesso.
Ebbi innumerevoli relazioni nella spanna di un anno. Alcune erano sveltine di qualche ora, altre tentate relazioni, che crollavano sempre per assenza di impegno da parte mia o da parte di entrambi. Lo feci talmente tanto che arrivai ad un punto in cui non sentii più nulla. Non ero più felice. L’essere desiderato non mi donava più piaceri di alcun tipo: mi sentivo solamente sporco. L’aspetto sociale che tanto avevo cercato di sviluppare all’interno del contesto virtuale era diventato scialbo e monotono. Mi ero affogato nella comunicazione sociale online e tutto quello che rimaneva era solitudine e dolore per mancanza di contatto.
Fu in questo periodo, durante il distaccamento socio-virtuale, che mi concentrai in parte sull’università. Realizzando che ciò che avevo provato a replicare era qualcosa di inesistente ed effimero, provai a trovare un senso in ciò che stavo facendo: diedi vari esami, mi concentrai su quelli di lingua inglese, e tralasciai lo spagnolo, completamente demotivato dallo studiarlo. Attraverso tutto questo continuai ad incontrarmi e avere un profondo rapporto d’amicizia con il mio miglior amico, ora trasferitosi in un’università lontana dalla mia, e ci incontravamo di volta in volta, parlando della nostra vita e di quello che facevamo. Le mie discussioni con lui si centravano sempre e solo attorno a Final Fantasy XIV, e dei risultati che avevo raggiunto negli ultimi periodi nel gioco, alternato dal mio lamentarmi di essere costantemente depresso e non avere obiettivi nella vita. Ad un certo punto persino lui fece molta fatica a capire in che stato fossi, ma non mi abbandonò mai, indipendentemente da quanto male stessi e sarei stato negli anni a venire.
Proseguendo in un percorso di focus assoluto sul mondo virtuale iniziai ad affezionarmi al mio personaggio in modo viscerale. Lo avevo completamente trasformato negli anni, reso qualcosa di ideale per i miei standard di bellezza, cominciando a reputarlo come qualcosa di incredibilmente “originale”, e che apprezzavo enormemente per il suo aspetto. Questo approccio andò a creare nei periodi successivi una costante ossessione nei confronti della mia creazione, che mi faceva correre a casa o saltare lezioni su lezioni pur di passare più tempo davanti allo schermo. Il suo aspetto era l’idealizzazione di ciò che desideravo da un possibile compagno nella vita reale, e ne ero così infatuato che mi spingeva a giocare il più possibile, per averlo sempre sotto i miei occhi.
Insomma, avevo tutto ciò che volevo in Final Fantasy XIV: una casa, un mondo tutto mio. Ero l’eroe amato da tutto e tutti e c’era sempre qualcosa da fare, senza una fine in vista. Questo, ovviamente, fino a quando il contenuto disponibile non cominciò a finire. Stiamo pur sempre parlando di un videogioco, con contenuto che, sebbene aggiornato di mese in mese, prima o poi termina. Notando come stessi finendo tutto ciò che c’era da fare, decisi di spingermi agli estremi. Sebbene non avessi avuto mai interesse nel provare contenuto “hardcore” (ossia estremamente difficile) all’interno del gioco, mi cimentai in esso per una necessità di voler continuare a fare qualcosa -qualsiasi cosa- con quel personaggio che tanto amavo e avevo costruito.
Mi cimentai nel contenuto più difficile del videogioco. Questo richiedeva un gruppo di 8 persone in comunicazione, e una conoscenza approfondita di meccaniche e numeri: ossia un livello estremo di expertise. E pur di fare qualcosa, pur di continuare a costruire quel mondo in cui oramai vivevo, ricercai gruppi di persone che volevano tentare l’impresa, e ne entrai a far parte.
Il problema con contenuti del genere, specialmente quando hai passato la tua vita chiuso in casa e sei cresciuto con una coscienza rivolta all’individualismo, è che prima o poi, all’interno di questi gruppi, nascano dei litigi. Discussioni, relazioni e comportamenti che mettono il videogioco in secondo piano e l’aspetto sociale in primo. Tutto ciò che conta, a quel punto, è l’ansia causata dal voler mantenere il contesto sociale stabile e le ricompense che ti vengono date alla fine dell’impresa. Passai anni a saltare di gruppo in gruppo, o perché questo andava sgretolandosi (in quanto in contesti del genere lo “sparire nell’anonimato” è molto più facile) o perché io stesso ero infelice della situazione in cui mi trovavo.
Ci sono molte vicende accadute nella spanna di quei 4 anni in cui cambiai continuamente gruppo, e di cui non parlerò in questo racconto. Rapporti, amori, gelosia: quel periodo ne è così pieno che 500 pagine non basterebbero per scendere nei particolari. È in questo periodo che la mia ossessione per il perfezionismo, che già avevo, si intensificò. Più andavo avanti nella mia impresa, più mi identificavo nel mio personaggio virtuale. Più ottenevo risultati in quel mondo, meno volevo cimentarmi in quello reale, sempre più concentrato nell’avere tutto ciò che era ottenibile nel minor tempo possibile, come se fosse una gara contro gli altri giocatori. Ogni qualvolta veniva rilasciato del contenuto nuovo ignoravo le mie responsabilità e passavo tutto il giorno a giocare, mettendo in secondo piano qualsiasi cosa avessi da fare nella vita reale durante quei giorni.
Passai 3 anni interi ad inseguire i miei obiettivi, andando di gruppo in gruppo, abbandonandoli quando volevo (molto spesso facendomi odiare da tutti), o perché stizzito dall’incapacità dei miei compagni di gruppo o perché intollerante nei loro confronti. Continuai questo approccio fino a quando non trovai questo specifico gruppo che mi inspirava molta fiducia. Erano individui veramente “hardcore”, il meglio del meglio quando si arrivava ad avere a che fare con statistiche, numeri ed esecuzione di meccaniche di gioco. Tempo un paio di giorni, feci richiesta di entrare nel loro gruppo, e mi accettarono. Ne fui incredibilmente felice: finalmente sarei stato in grado di ottenere ciò che volevo nel minor tempo possibile.
All’inizio non notai nulla di strano all’interno del “party” di cui facevo parte: erano tutti individui eccellenti nel videogioco, e sapevano adeguarsi e coordinarsi con molta facilità, il che rendeva il contenuto da completare semplice da eseguire. Erano tutte persone più grandi di me, e questo mi diede un indiretto senso di rispetto verso tutti loro. Ero cresciuto dando molta considerazione verso tutte le persone più grandi di me (un riguardo verso gli anziani insegnatomi dai miei), e fu lo stesso con questo gruppo di giocatori.
Una cosa che notai immediatamente e che mi dava relativamente fastidio, specialmente nelle sessioni successive a quelle iniziali, era il leader: ogni volta che qualcuno di noi falliva nell’esecuzione di meccaniche di gioco, automaticamente il leader gli puntava il dito contro e ne criticava le abilità. A quel tempo non me ne feci un problema, anzi: fu una spinta in più nei miei confronti per essere “perfetto”, e una necessità di non fallire mai per non essere insultato, o deriso delle mie abilità.
Tutto andò relativamente liscio fino ad uno specifico aggiornamento che inseriva all’interno del videogioco del nuovo contenuto “hardcore”, il più difficile rilasciato fino ad allora. Devo ammettere che sono restio dallo scrivere riguardo a questi eventi: ancora sono presenti e vividi nella mia testa, e mi hanno ferito più di qualsiasi altra cosa che abbia raccontato in questo testo, tanto che tutt’oggi ne risento degli effetti. Tuttavia, per il mio stesso bene, e proprio perché voglio che le persone sappino ciò che è successo, ne parlerò.
Questo fu il periodo più terrificante di tutta la mia vita. A questo punto mi identificavo nel mio personaggio e avevo massicce manie di perfezionismo in un videogioco dove completare tutto è impossibile. Iniziai questo nuovo contenuto con il mio nuovo gruppo, e di lì a poco la situazione degenerò completamente. Il leader cominciò a prendermi di mira poiché facevo enorme fatica a comunicare, a causa della barriera della lingua (la lingua usata per comunicare era l’inglese) e delle nuove meccaniche da eseguire. Nei 3 mesi in cui ci cimentammo in quel nuovo contenuto si creò una tensione che non riesco a descrivere. Nove, se non più ore a settimana erano usate per ripetere delle azioni che venivano costantemente criticate e insultate da una persona a cui davo un enorme rispetto. Il leader faceva innumerevoli critiche verso chiunque, con una predilezione nei miei confronti, perché ero “quello nuovo che non sapeva cosa stava facendo”.
Cominciai ad essere terrorizzato ogni volta che dovevo presentarmi per queste sessioni insieme. Un genuino terrore che ogni volta mi provocava grave tachicardia e ansia un’ora prima di iniziare. Fu una vera e propria tortura psicologica. Il nostro leader di gruppo aveva orribili fitte di rabbia e insultava tutti per ogni singolo errore che facevano. I miei istinti mi dissero di scappare, andarmene da quell’orribile gruppo dal quale non avevo avuto altro che ansia e stress, ma il mio perfezionismo mi bloccò: queste erano persone veramente brave nel videogioco, molto più veloci di chiunque altro, e sarei stato uno sciocco ad abbandonarli quando erano così competenti nel raggiungere risultati.
E quindi ne continuai a far parte. In mezzo a situazioni indescrivibili e al limite della ragione, nel quale un singolo errore risultava in insulti pesanti e minacce, la mia autostima, assieme alla mia psiche, crollarono completamente.
Diventai un guscio vuoto. Ero spaventato di letteralmente tutto ciò che mi era attorno e a questo punto la mia vita reale era inesistente. Era presente solo il costante terrore di avere a che fare con altre persone. Mi sentivo completamente inutile e non mi reputavo in grado di fare assolutamente nulla. L’incessante mania di perfezionismo mi incollava a questo gruppo e pensavo che – siccome non mi ritenevo più un essere vivente – almeno il mio personaggio sarebbe potuto diventare ciò che non ero, ed essere l’eroe di quel mondo. Essere parte di lui, in quel momento, non sembrava così male. Avevo il terrore di frequentare il gruppo nel quale stavo avendo un pesante caso di cyberbullismo, ma ne avevo anche un’ossessiva necessità, per rimanere perfetto in quel mondo, così che il personaggio che tanto amavo fosse felice.
Fu un trauma pesante e intenso, e durò per mesi. Ebbi un completo distacco emozionale da tutto ciò che mi circondava. Il mondo virtuale che prima avevo visto come un paradiso era diventato vuoto, un insieme di numeri e statistiche, di pixel e colori che non mi dava più soddisfazione alcuna. La realtà e la mia vita si intorpidirono davanti ai miei occhi. Mollai tutto ciò che aveva a che fare con l’università.
A questo punto il suicidio sembrò la via migliore. Tutto ciò che mi sentivo di essere in quel momento era un verme. Un verme eternamente intimorito tutti i giorni della sua vita, terrorizzato dalla possibilità di essere insultato e criticato in ogni momento, spaventato da qualsiasi cosa che portasse un cambiamento all’interno della sua vita. Mi bruciai completamente su questo gruppo: tutta la volontà che avevo avuto gli anni prima venne a mancare. Ero completamente esasperato e drenato dalle persone a cui avevo dato tutto, assieme al mio rispetto.
Quando il videogioco ebbe un ulteriore aggiornamento, e il mio gruppo si preparò per cimentarsi in altro contenuto “hardcore”, scoppiai all’aspettativa di dover soffrire nuovamente. Il pensare di dover ritrovarmi in situazioni che mi avevano completamente distrutto mi fece rabbrividire. Ebbi un attacco di panico, e li abbandonai seduta stante. Tuttavia, essendo ancora ossessionato dall’essere perfetto, cercai un altro gruppo piuttosto che rinunciare a ciò che stavo facendo. Rinunciare, secondo la mia mentalità di allora, non era un opzione che potevo permettermi.
Perfezionismo e ricerca d’aiuto
L’abbandonare il “party” di cui avevo fatto parte per un anno intero e sul quale avevo basato la mia vita mi disorientò completamente. Quel gruppo era stato il mio mondo, basato su paure, timori e ansie di ogni tipo, e ora ne ero libero. Per quanto, tuttavia, questa vicenda fosse stata uno dei più grossi traumi della mia vita, sicuramente non era l’unico problema con cui avessi a che fare. Il mio perfezionismo ossessivo compulsivo era più presente che mai, sommato alla mia identificazione e amore costante con il mio personaggio virtuale.
Non rinunciai a Final Fantasy XIV, e molto presto mi ritrovai in un altro gruppo, portandomi dietro i danni post-traumatici della mia ultima esperienza. Mi ritrovai con dolori e ansia acuta poco prima di sessioni nel quale dovevo presentarmi e comunicare con i miei nuovi compagni di gruppo. Per quanto cercai di relazionarmi, o anche solo di entrare a far parte di un nuovo gruppo, venni sempre orribilmente bloccato dalle mie stesse aspettative e timori, con la paura incessante che le persone con cui avevo a che fare desideravano una qualche competenza che io, sicuramente, non possedevo.
Passai quindi l’ultimo anno di università a lingue straniere in uno stato di ansia, insoddisfazione e vuotezza. Ripiegai il mio ego e i miei desideri all’interno di quel personaggio che avevo costruito negli anni, e che doveva essere perfetto: dovevo mostrare a tutti che ero il migliore in quella realtà, e che anche io valevo qualcosa. Più passava il tempo, più mi innamoravo di ciò che avevo costruito con tanta cura: quell’io virtuale era l’unico pilastro rimasto in una realtà senza senso e mi donava un qualche tipo di speranza. Sebbene non riuscissi più ad attaccarmi emotivamente al videogioco, persistevo comunque nel continuare a sostenere quel pilastro. Senza di esso, molto probabilmente, non sarei qui oggi a scrivere. Per quanto altamente nocivo come rapporto, l’attaccamento al mio personaggio virtuale mi permise, in un qualche modo, di andare avanti sebbene non volessi più vivere.
Fu in un giorno qualsiasi che, fuori dal nulla, decisi di fissare un appuntamento con uno psicologo. Ancora non so perché lo feci. Avevo già provato ad andare da uno terapista durante i miei anni alle superiori, e la situazione non era che peggiorata. Probabilmente, devo dedurre, fu una mia richiesta indiretta di aiuto, un voler parlare a qualcuno di quel garbuglio che era la mia vita.
Le visite dallo psicologo iniziarono lente, ma diventarono gradualmente terapeutiche. Potevo finalmente esprimermi con qualcuno riguardo a tutti quei problemi che mai avevo messo in parola. In poche sessioni vomitai fuori tutto ciò che avevo tenuto segreto: feci esplodere tutti quei problemi che avevo avuto in 8 lunghi anni con ogni singolo dettaglio, e fui in grado di rifletterci. A poco a poco, con il passare dei mesi, sentii la mia sensibilità lentamente ritornare. Per quanto sia semplice scriverlo, riuscii a piangere di nuovo. Realizzai, dopo il dovuto tempo, di avere una profonda dipendenza videoludica, e lentamente tutti i problemi che non ero riuscito ad identificare scaturirono fuori.
Il recupero iniziò dal rapporto con i miei genitori: con vari incontri e riflessioni, fui finalmente capace di parlare con i miei più apertamente. E, dopo anni di incertezza, una singola domanda dal passato mi fece realizzare cos’era che volevo veramente dalla vita.
“Che cosa voglio fare da grande?”. Quella domanda, che mi era stata già fatta tanto tempo addietro, ora ritornava, e mi donava una risposta. Con molti sforzi e difficoltà cambiai quindi università, e mi iscrissi di mia volontà a psicologia.
Cominciai a costruirmi qualcosa nel mondo reale. Tuttavia, sebbene stessi facendo passi da gigante per rimettermi, il mio attaccamento al videogioco rimaneva, e rimane tutt’ora. Il mio focus ossessivo compulsivo alle ricompense e al mio personaggio erano ancora forti: vi avevo basato tutta la mia vita, dopotutto.
Un altro terribile trauma che dovetti superare, fu un “furto d’identità” virtuale.
Essendomi così tanto ossessionato sul mio personaggio e per così tanto tempo, lo ritenevo unico. Era me, e nessun altro. Nel momento in cui un altro giocatore ne copiò l’aspetto e cominciò ad utilizzarlo come suo ebbi uno degli choc più grande di quegli anni. Fu come se avesse “rubato” tutto ciò che avevo costruito nella mia testa, l’unicità su cui tanto mi ero fondato per restare in piedi, e che mi rendeva chi ero allora. Il fatto che non potessi fare nulla a riguardo, in quanto chiunque può essere ciò che vuole in un MMO, mi fece soffrire enormemente.
Ebbi pesantissimi attacchi d’ansia e di panico, giorno dopo giorno, per mesi. Il mio cervello faceva fatica a distaccare ciò a cui tanto si era legato per tutti questi anni, e che era stata un’ancora di salvezza per la mia sanità mentale. Ne parlavo con lo psicologo in tutte le occasioni possibili, cercavo di rifletterci e di applicare i miei studi di psicologia e pedagogia per elaborarlo. Era così dannatamente difficile distaccarsi dal mio personaggio, poiché lo avevo amato così tanto, per così tanto tempo.
Poi, un giorno come gli altri, dopo molta fatica e riflessione, riuscii a darmi una risposta. Capii, infine, cosa il mio personaggio virtuale rappresentasse, e ne parlai con lo psicologo. Ciò che avevo costruito nella realtà virtuale era un mix di idealismo: ciò che non ero, e ciò che desideravo. Il mio personaggio doveva essere perfetto: se nella realtà mi identificavo come nessuno, in quel mondo ero finalmente qualcuno e potevo esserne il migliore. Il mio personaggio doveva essere affascinante e bellissimo, doveva avere una personalità ideale. In vita ero solo, mi sentivo perso, disorientato e mi mancava qualcuno da amare e che mi amasse in ritorno. Tutti questi desideri si erano rimescolati in una manifestazione virtuale, che era il culmine dei miei desideri reconditi e indiretti.
Nel momento in cui definii il problema e le cause, iniziai un distaccamento progressivo. Era più facile non pensarci e trovare un momento di calma nella tempesta dei miei pensieri. Dopo un anno, riuscii a far diventare quel personaggio qualcosa di diverso, dal quale potevo finalmente differenziarmi.
Non è passato molto tempo da quando ho deciso di salvarmi, cambiare il mio approccio al mondo online e finalmente costruirmi un pilastro che mi sostiene nella vita reale. Mi vedo ancora con uno psicologo, e lavoro incessantemente sui molteplici problemi che mi porto dietro, dopo tutti questi anni. La mia dipendenza non è svanita: è ancora lì, sotto varie forme di abitudini, ossessioni e pattern. Per quanto abbia imparato a gestirla e a controllarmi nelle mie tentazioni, è sempre presente, in ogni istante. Ho molto spesso ricadute, momenti di depressione molto pesanti, e a volte mi chiedo se vale la pena di vivere la mia vita. La paura e imbarazzo sociale non se ne sono mai andati, sono ferite che rimangono, e che cerco di gestire e affrontare in ogni modo possibile. A volte il virtuale offre un nascondiglio che non posso rifiutare. Mi permette di esprimermi come voglio, di essere un eroe, di avere qualcosa di speciale in una vita che non ritengo speciale in questo momento. Non importa chi sia, o quali problemi abbia, in Final Fantasy XIV sono libero da tanti pregiudizi e strutture mentali, sia mie che altrui. Tuttavia, per quanto incantevole sia, e per quanto un rifugio pieno di bellezza, è effimero. La perfezione e idealismo non sono parte del mondo reale.
Quindi, per quanto depresso sia, per quanto mi senta male e abbia paura del mondo, e mi rifugi a volte in quel virtuale che tempo fa mi aveva fatto sentire tanto felice e soddisfatto, ritengo che vivere e non fuggire davanti alle difficoltà dell’essere e del mondo sia molto più importante del nascondersi, e pretendere che tutto vada bene così com’è.
Non troverò la mia felicità e soddisfazione nell’identificarmi in un mondo virtuale, del quale non faccio parte. Per quanto sia difficile, mi spingerò a migliorare la mia psiche e la mia vita reale, per essere veramente felice di ciò che sono, un giorno.
Scritto da Alessandro Marchetti