Anima errante

Fra qualche giorno, è programmato, torno in Italia. Finisce la mia latitanza di quasi un anno in Spagna, in Catalogna. Da un certo punto di vista non mi dispiace cambiare aria, ma cominciavo ad abituarmi a questo stabilimento che ricorda quei prefabbricati dove vivono gli zingari, abbandonati da Dio in mezzo al nulla nella periferia di una qualsiasi grande città. Cominciavo ad abituarmi a questi ragazzi e al modo in cui si vive qui: si esce la mattina e ognuno cerca di sbarcare il lunario come può, chi ruba, chi chiede l’elemosina e chi come me cerca disperatamente un lavoro e si adatta a ogni offerta.
Ma ho deciso. Ora sono pronto.
La mia storia parte da lontano, sono nato in Colombia in un caldo settembre del 1980, a Cali, una delle città più popolose e trafficate del paese con una temperatura media annuale di 26-27 gradi.
Cali è il principale centro commerciale, industriale e agricolo del sud-ovest della Colombia e tra il narcotraffico e la mala vita ho trascorso la mia infanzia. Ricordo come fosse ieri il profumo dei giardini dove a otto nove anni andavo a giocare con i miei amici a calcio. Passavamo intere giornate a giocare, tanto che c’erano dei giorni che non andavamo neanche a scuola pur di fare il nostro picadito (partitella) e nonostante la nostra giovane età eravamo già dei piccoli occasionali teppistelli.
A quell’epoca i cartelli della mafia erano in conflitto e l’aria che si respirava di sangue e di violenza è senza ombra di dubbio il ricordo più amaro, la consapevolezza che nessuno era risparmiato e anzi più eri povero e più eri alla loro mercè.
La scuola che frequentavo era un edificio che non era stato completato, non aveva il tetto e le sedie erano casse di birra vuote; le lezioni venivano sospese in caso di temporali o mal tempo, spesso era chiusa per sciopero e, quando mancava la maggior parte degli insegnanti, chi rimaneva ci portava a fare delle scampagnate nei parchi cittadini.
Mia madre era una donna piena di grinta e a ventidue anni diventare genitore in Colombia e da sola non era cosa facile.
Non era semplice stare dietro a un bambino il quale le impediva di essere libera di godersi appieno la sua giovane età. Ultima di nove figli, sviluppò per sfuggire agli abusi di mio nonno, un forte attaccamento a ciò che era più facile incontrare per le strade di Pradera, il divertimento e le bevute che tutto sommato nel Sudamerica di quegli anni erano la norma.
Conobbe mio padre ancora minorenne e lui le fece mille promesse fino a ottenere quello che voleva, così lei dopo un po’ rimase incinta. Credeva si sarebbe sistemata. Si era illusa di essere amata da un uomo al quale non importava nulla né di lei né del piccolo che cresceva nel suo ventre.
Tutta la famiglia, mio nonno e gli zii, volevano farla abortire, così decise di andarsene e di darmi la vita. E così a tratti faceva da madre, da padre, da nonno e da nonna. A volte si fermava a guardarmi per ore, mentre io facevo finta di dormire, mi accarezzava e mi stringeva forte, riversava su di me un amore immenso e io mi sentivo così amato che qualsiasi fosse stata la sua colpa me la dimenticavo e dormivo sereno.
Ero il suo eroe, il suo bambino, il suo tutto. Io e lei contro il mondo.
Ricordo in particolare un Natale, facevo forse la terza o la quarta elementare, e lei fece di tutto per regalarmi una bici rossa usata con i cerchi in plastica bianca. Era la cosa più bella e meravigliosa che avessi mai ricevuto, mi sembrava di volare. Con gli amici mi vantavo che era una bici speciale e che aveva i superpoteri e così, se mi concentravo, potevo diventare chiunque e quel Natale infatti divenni Superman! Mi lanciai con la bici dal tetto di una casa perché credevo di poter volare e fu così che mi spaccai per la prima volta la mano sinistra.
Non so quanto tempo abbiamo vissuto in quel ghetto di quartiere, ma abbastanza per farmi capire fin da piccolo che avrei dovuto sopravvivere e non credere alle favole che mi raccontava la televisione con i telefilm e i programmi americani dove tutto era dorato e possibile.
San Luis era uno dei quartieri più pericolosi della città e la sera dopo una certa ora la vita diventava insignificante e perdeva il suo valore.
Le bande dei quartieri si disputavano il potere per il dominio del barrio e il più delle volte le autorità rinunciavano anche a intervenire in quelle brutte liti dove catene, coltelli, e i colpi delle pistole facevano un gran rumore, a volte così assordante che ricordava il capodanno.
Davanti ai nostri occhi innocenti questo era normale, era la prassi.
Se volevi qualcosa te la dovevi prendere a qualsiasi costo, non importava cosa sarebbe successo e tanto meno ciò che avresti pagato, ma se non ottenevi ciò che volevi non eri nessuno e saresti stato picchiato, ricattato o magari, anche per sbaglio, ucciso.
Grazie all’aiuto di una cara zia ricordo ci trasferimmo in un appartamento a 300 mt in linea d’aria da San Luis “a los Alcazares”, al limite tra i malvagi e i diavoli, ossia tra le favelas e i quartieri popolari.
Terzo piano, due stanze, un bagno, una minuscola cucina e un balcone.
Io venni trasferito a una scuola gesuita in un altro quartiere, il quale era circondato da un gigantesco parco, le case e gli appartamenti erano molto belli, sembrava di essere in un’altra città, un posto di gente benestante.
La mattina a volte non mi davo pace, non riuscivo a capire perché dovevo svegliarmi così presto e prendere quell’autobus di linea che aveva un tremendo odore di benzina e grasso, il quale al ritorno mi faceva stare così male da farmi vomitare non avendo fatto neanche la merenda.
Il chiasso e il disordine che facevamo sul pullman erano tali da far venir mal di testa a chiunque fosse salito.
La mia vita cominciò a cambiare, tra molti sacrifici fatti da mia mamma e molte arrabbiature per il mio continuo “cattivo” comportamento che portava mia madre alla disperazione.
Da lì a qualche mese ci trasferimmo da mia nonna, mia madre aveva perso il lavoro ed era finita in ospedale.
Mia nonna viveva in un quartiere residenziale in una casa al pian terreno, all’epoca avevo già iniziato la prima media e andavo alla scuola militare: Accademia Militar Jose Maria Caval. Era una scuola con più di tremila allievi. Mia madre pensava fosse una buona idea darmi un po’ di regole e di disciplina visto che non avevo mai avuto una vita regolare.
I suoi piani di andare all’estero per crearci un futuro migliore si stavano per realizzare, da lì a poco sarebbe partita per l’Italia. L’idea era per qualche mese, invece passarono due anni.
E in quei due anni successe di tutto, molte cose non le ricordo, o forse non le voglio ricordare.
Le litigate con mio zio le ricordo invece, e purtroppo anche le conseguenze; una più di altre.
Ero tornato dalla mia solita partita di calcio pomeridiana con un’ora di ritardo sull’orario concordato e lui non voleva che io uscissi di nuovo a giocare dopo cena perché non avevo rispettato gli orari e non avevo fatto i compiti. Ricordo che mi urlava che non sarei diventato nessuno, che ero buono solo a creare rogne e problemi. Tentava di picchiarmi con la cintura dei pantaloni e io lo schivavo ridendo al vederlo così infuriato; a un certo punto mise a segno uno, poi due, tre colpi di fila.
Mentre stavo per cadere afferrai un coltello che era sulla tavola da pranzo, mi lanciai contro di lui con una furia omicida avvicinandomi per colpirlo. Lui però era più agile e nel pieno delle sue forze e io ero appena un bambino. Afferrandomi ambedue le braccia con una sola mano prese la cinghia e mi picchiò brutalmente. Chiuse la porta di casa a chiave dicendomi che per un mese non sarei più uscito, costringendomi a rimanere in camera da letto senza cena.
Dopo qualche ora di riflessione escogitai un piano di fuga. Abile come una volpe che aspetta il momento giusto tornai giù in cucina, appoggiai la scala sulla grondaia, ci salii sopra, ma mi ritrovai la strada chiusa dalle sbarre molto strette che dividevano la cucina dai tetti per evitare che i ladri potessero venire dentro e, allo stesso tempo, per poter cambiare l’aria visto che non c’erano le cappe per il fumo.
Infilai, così, prima la testa dopo di che infilai le spalle, infine il busto e in quel momento capii di essere riuscito nell’impresa.
Ero sul tetto, dovevo camminare per un centinaio di metri e saltare giù su un piccolo giardino che dava proprio sull’altra via. A un certo punto ebbi la sensazione di essere visto da una governante afroamericana che lavorava presso la casa di un narcotrafficante e sentii urlare “ladro, ladro”. Iniziai a correre sui tetti, si sentirono due spari e non so se per l’adrenalina che avevo in corpo o per la paura che qualcuno mi scambiasse veramente per un ladro, feci una cinquantina di metri e saltai giù dal muro in meno d’un batter d’occhio.
Andai da un mio amico e ci rimasi per tre giorni.
Furono giorni devastanti. Carelulo, faccia di lullo, frutto succoso e dolce del Sudamerica, abitava in un condominio a due isolati da me. Aveva una casa molto grande e camera sua era come metà della casa di mia nonna. Arrivai sanguinante e agitato, avevo male ovunque. Ho vaghi ricordi di come andò esattamente quella sera, eravamo circa otto persone e io avevo già bevuto un quarto di bottiglia di aguardiente (grappa di canna da zucchero), giravano molti sacchettini pieni di cocaina già tagliata e pronta per essere sniffata, altrimenti è così forte che ti brucia tutto e ti può far uscire sangue dal naso subito.
Io ero mezzo ubriaco, la fumana che c’era dentro lo stanzone era così tanta che Lullo accese il ventilatore per far uscire il fumo dalla finestra. Ricordo di aver fumato qualcosa di strano, qualcosa che non era cocaina, ma che mi intorpidì la vista e mi lasciò collassare in un sonno profondo. Dopo circa un giorno e mezzo mi svegliai e mi sentii davvero riposato, ma mi facevano male i lividi che avevo sulle braccia, sulle gambe e sul fondo schiena.
Avevo dodici anni. L’abuso di droghe, oppioidi e non, insieme all’alcool che fino a quel momento erano stati occasionali e poco consapevoli, da quel momento furono parte della mia vita sia come consumatore, sia come bandito.
Il fine settima seguente andai da mio padre e da lì a poco la mia vita sarebbe cambiata per sempre.
Eravamo nel suo balneario, al piano di sopra dove c’era un appartamento. Erano più o meno le dieci del mattino. Io giocavo con Nintendo e sentimmo suonare alla porta.
Mio fratello, figlio di una delle compagne di mio padre, mi chiese di andare ad aprire.
Io lo mandai a quel paese dicendogli che non potevo, così mi lanciò una ciabatta e ci andò lui.
Aveva 19 anni, ricordo ancora distintamente il rumore della pistola…bum bum bum …e la sua vita spezzata.
Ancora oggi, a volte, rivedo alcune immagini di quel momento e mi sembra di impazzire.
Questa era guerra dichiarata. La guerra tra i cartelli stava prendendo anche i piccoli pesci e mio padre, per mettermi al sicuro, mi fece tornare da mia nonna.
Per mesi non riuscii a chiudere occhio, appena mi addormentavo arrivavano gli incubi.
Nel frattempo arrivò anche il giorno della mia partenza per l’Italia. All’aeroporto c’erano tutti ma proprio tutti: amici, parenti, cugini, persino il mio cane!
Ricordo ero felicissimo e mi sembrava di andare in villeggiatura, era la prima volta che prendevo un aereo e mentre salutavo tutti, non so cosa mi prese, cominciai a piangere.
Non volevo più andarmene, dovevo lasciare tutto e non ero pronto.
Il mio arrivo in Italia fu un incubo, non riuscivo a capire niente e non mi piaceva neanche un po’.
La cosa che mi incuriosiva di più e che mi chiedevo tutti giorni era: “Ma la gente dove cazzo è finita?”
Ero passato da una città metropolitana del Sudamerica a un paesino della provincia di Verona!
Non c’erano ragazzi che giocavano al pallone per strada, ma c’era il campo sportivo! Non c’era musica da tutte le parti, ma un silenzio che mi metteva soggezione.
Mia madre aveva un nuovo compagno e io cominciai a odiarlo; durante il primo anno rimasi chiuso in casa perché il permesso turistico era scaduto; quando il pomeriggio, rimanevo solo in casa scappavo e andavo al campo di calcio.
Lì mi sentivo un re, giocavo con i ragazzi più grandi ed ero felice, finché un giorno il compagno di mia madre mi beccò e non tornai più al campo, giocavo soltanto nel cortile di casa.
Dopo tanta solitudine e attesa arrivò il permesso di soggiorno, cominciai così ad andare a scuola. Terza media.
I mei compagni erano tutti più piccoli di due anni e io divenni ben presto la pecora nera: un giorno sì e due no marinavo la scuola e andavo in città con altri amici che frequentavano già le superiori.
Per potermi pagare gli studi alberghieri ho cominciato a lavorare, facevo le stagioni estive sul lago di Garda come barista ed ero molto bravo; me ne andai di casa, guadagnavo bene e potevo fare quello che volevo.
A 18 anni ho conosciuto due personaggi, non proprio raccomandabili, che spacciavano droga già da qualche anno sulle rive del lago. Cosi cominciammo ad architettare un piano per fare una bella rapina nell’albergo dove lavoravo.
Quella sera portammo via più di 50 milioni tra contanti, orologi e oro che c’erano nella cassa forte.
Il colpo era riuscito bene, ma da lì ho cominciato un percorso verso il baratro fatto di delinquenza e furti, con accanto sempre la dipendenza.
Per anni ho alternato periodi bui a periodi di rinascita in cui credevo davvero di farcela e di poter riscrivere le pagine della mia vita.
Nel mio sogno di cambiare vita facendo soldi facili sono entrato però in un giro molto pericoloso.
La prima volta che incontrai “il boss” fu a una cena, era con altre quattro persone e mi metteva soggezione, si capiva subito che era un uomo d’affari come dite qui in Italia. Quella sera parlammo di tutto, donne, macchine, calcio, tranne che di affari. Lo trovai spigliato e simpatico, ma cosa nascondeva mi innervosiva.
Dopo qualche tempo ricevetti una telefonata, la richiesta era una piccola commissione, ma in certi ambienti niente si fa in cambio di niente. Fu un periodo confuso di contrasto continuo con me stesso, ancora convinto di poterne venire fuori, fare un bel po’ di soldi e aiutare la mia famiglia che in realtà continuavo a trascurare e della vita sregolata che portavo avanti, ma il risultato fu ben diverso. Ho rischiato di uccidere un amico e di essere ucciso.
Quando mi resi conto che la mia stessa vita era in pericolo, ho deciso di scappare dall’Italia.
Mi promisi che se fossi riuscito a scappare in Spagna mi sarei dato una ripulita e avrei ricominciato una vita diversa.
Mai più sofferenze di quel genere, mai più tradimenti, mai più notti in bianco, mai più avere a che fare con vendere o consumare droghe.
Ormai la paura aveva preso il sopravvento e non riuscivo più a ragionare lucidamente, ma sapevo che potevo farcela e che forse qualche amico avrebbe potuto darmi una mano.
Arrivò il giorno della mia partenza, non dissi niente a nessuno e presi il treno per Torino. A Torino ho dormito in un parco bellissimo, vicino al centro, e la mattina dopo ho conosciuto una tipa che era seduta su una panchina e stava leggendo un libro fumando uno spinello. Mi dice: “Vuoi?” e per due secondi nella mia mente ci fu un vuoto, stavo allungando la mano e all’improvviso le dissi: “No. Ho smesso. Preferisco la vita!!” Così scoppiammo a ridere, lei fumò la sua canna da sola e io le offrii la colazione.
Alle due del pomeriggio presi il treno per Ventimiglia una volta arrivato m’incamminai fino a Montpellier a piedi, furono quasi quindici giorni di camminata con una media di 20 km al giorno.
Quando arrivai contattai un amico e in cambio di 5 mila euro ottenni un passaporto, una carta d’identità e un codice fiscale, in pratica una nuova identità.
Ero finalmente un’altra persona potevo ricominciare la mia vita da capo.
A Montpellier, dopo una settimana, presi il treno per Barcellona, ma arrivati al confine mi prese il panico, era pieno di poliziotti che controllavano i passeggeri in transito.
I documenti li avevo sigillati bene in una borsa di plastica con lo scotch, così mi lanciai in mare e feci quasi 2 km a nuoto e una volta risalito a riva sull’altra sponda della costa spagnola, rimontai sul treno e mi infilai dentro i gabinetti. Rimasi lì finché il treno non ripartì e quando capii di essere in terra spagnola al sicuro, spuntai fuori con un sorriso che abbagliava e contagiava tutti in treno.
Ero felice e pensavo che ancora una volta la vita e Dio mi tendevano una mano.
I primi giorni a Barcellona furono molto duri, non avevo quasi più soldi e avevo paura di andare in albergo perché temevo ci fosse un mandato di cattura internazionale nei miei confronti.
Barcellona è una delle città più affascinanti credo d’Europa, dove tutto e concesso e niente è impossibile.
Ho sofferto tanto e cercato disperatamente qualcosa che in realtà sapevo di aver lasciato da qualche parte in Italia.
Sentivo che sì, potevo condurre una vita lontana dai guai e continuare a lavorare in quella cantina tipica spagnola, ma i sensi di colpa nei confronti dei miei figli e la vita svogliata che conducevo, mi hanno dato il coraggio di decidere di tornare in Italia.
Così ho contattato un amico, il direttore di alcune comunità, e ho deciso di assumermi finalmente le mie responsabilità e di affrontare la realtà dalla quale sono scappato. Una vita intera a fuggire dall’unica cosa da cui non puoi sfuggire: te stesso.
Ed ecco arrivato il momento. Posso tornare.
E da qui ricomincio. Inizierò di nuovo a ricostruire la mia vita.
Quella passata è trascorsa a rincorrere un’esistenza mai vissuta pienamente, mai nella consapevolezza del mio benessere, fatta di apparenza, per nascondere in realtà un bambino che non è mai stato bambino e che ha perso non solo un fratello, ma una parte importante di se stesso.
Ora, con coraggio e umiltà mi farò aiutare, consapevole di dover affrontare i fantasmi che per anni mi hanno accompagnato e che mi hanno impedito di amare fino in fondo, gli altri e soprattutto me stesso.
Scritto da Cocoliso