ODI ET AMO
Incapace, mi ripeteva mio padre quando alle elementari sbagliavo i calcoli. Quelle parole si erano
attecchite dentro e ogni tanto ritornavano in mente.
Cominciavo a pensare di non essere adatto agli urti scombinati della mia vita. I miei amici mi
convinsero a viaggiare con loro. Cambiare cielo: cambiar animo.
Così a bordo di una nave da crociera, la vidi per la prima volta e mi avvicinai a lei. Era Agosto.
Avevo optato senza troppo entusiasmo per il nord dell’Europa. Avevo perso mia madre da circa
cinque mesi e mio padre da un anno. Avevo bisogno del meritato riposo, lontano da tutto e tutti.
Vedevo le famiglie immortalare con le foto i paesini che s’insinuavano nei fiordi, i colori nitidi del
cielo e dei boschi. Osservavo le vite degli altri dal ponte vicino la piscina.
Maledizione, mi resi conto di non avere più una famiglia, né di origine né tutta mia. Non ero stato
nemmeno in grado di tenermi stretta quella che avevo provato a crearmi sette anni prima. Avevo un
figlio di cinque anni, ma viveva con la mia ex moglie. Era lui il mio universo di pensieri e
attenzioni. Io ero il suo eroe nonostante i miei errori e fallimenti.
Dopo cena decisi così di assecondare gli amici ed entrai, quasi trascinato, in quella sala. Tra rumori
e musiche diverse, si muovevano uomini e donne elegantissime di ogni età.
Poi quasi defilata, in un angolo più buio la vidi. Si trovava insieme con altre, già tutte occupate. Lei
era sola e libera. Sembrava ci stesse attendendo. Una postazione con lo sgabello nero e lucido, un
monitor gigante e dei pulsanti tondi e variopinti pronti a brillare, se solo sfiorati. La prima volta, che
vidi una slot, decisi comunque di amarla da lontano. Fu Marco, il mio amico di sbornie e avventure,
a tentare la sorte, a toccarla, a spingere i suoi tasti, a percuoterla, a implorarla alla fine. La vittoria,
seppur fugace, giunse solo dopo una ventina di minuti.
Il tintinnio delle monete mi scosse la schiena con un brivido. In quell’istante non diedi peso alla
scena che avevo vissuto. Iniziai a ripensarci il mattino dopo, a colazione. Mi facevo grande con gli
altri, reputandomi più abile di Marco. Se solo ci avessi provato anch’io con quei tasti. Per tutto il
giorno il rimpianto mi perseguitò, fino al momento in cui potei rivederla e toccarla. Ritornai da lei,
ma questa volta da solo. Con una scusa mi sganciai dalla comitiva.
Volevo ad ogni costo un incontro intimo.
Vinsi al secondo tentativo e ciò fu la mia fine. Mi convinsi che avevo ragione: io ci sapevo fare.
Dopo le tante batoste dalla sorte, ora la ruota stava iniziando a girare per il verso giusto. Mi sentivo
fortunato. Così per tutta la durata della crociera, andai là quasi ogni sera. Vincevo, perdevo,
m’illudevo di essere bravo e capace. Finalmente sorridevo e non per finta. Scambiavo perfino
quattro chiacchiere con le ragazze che venivano a vedere le partite e che credevo mi portassero
fortuna. Non so se fosse felicità, ma sicuramente sentivo di essere appagato. Riuscivo a ottenere
finalmente qualcosa. Non ero riuscito invece a trattenere mia moglie, quando decise di andare
dall’avvocato per chiedere la separazione. Lei mi accusava di essere concentrato solo sul mio
successo personale e sulla carriera; diceva che non consideravo i suoi bisogni, quello di avere un
secondo figlio per esempio.
Quando giocavo alla slot, si cancellava ogni pensiero, anche questo. Ero solo io e Lei. Una lei che
non mi faceva domande, che non mi dava pensieri anzi me li allontanava per un po’. Dopo qualche
mese trascorso insieme, pensai addirittura di sospendere le gocce che mi aveva dato il medico per
dormire e stare sereno. Quei disegni, quei colori e quelle cifre catalizzavano la mia attenzione
anestetizzando tutto il resto. I primi tempi non mi rendevo conto neanche di quanto perdevo, anzi
non mi rendevo conto nemmeno che perdevo. Nessuno sapeva dove andavo, quando uscivo
dall’azienda. E il tempo trascorso insieme non riuscivo più a quantificarlo, sembrava sempre troppo
poco.
In ufficio poi cominciai ad accumulare stress continuo: colleghi maldicenti e assenteisti, dirigenti
che si approfittavano del ruolo, tempi da rispettare e giornate che terminavano troppo in fretta.
Forse stavo invecchiando, non riuscivo più a seguire troppe cose. Non potevo rispondere, come
quando avevo venti anni. Restavo zitto, mangiavo le unghie in ascensore sperando di ritrovarmi
altrove, una volta aperte le porte. Un brutto periodo. Non potevo rischiare un richiamo scritto dal
dirigente di turno.
“C’è chi va a correre al parco, chi beve un po’ di più, chi fuma o sniffa con gli amici il sabato e la
domenica va a donne” questo mi ripetevo quando pensavo alla mia slot… ”io non ho vizi… allento
solo un pochino lo stress!”. Un perfetto mantra da recitare allo specchio e che poi diventò un
ritornello ripetuto a chi magari mi avrebbe recriminato qualcosa.
Nessuno però all’inizio sapeva. Al Liceo ricordo che Andrea Cappellano aveva detto che l’amore
più bello era quello segreto. Così iniziai ad andare in bar lontani, in altri quartieri rispetto all’ufficio
o a casa. Li sceglievo con sala appartata o paraventi che riservassero la giusta privacy a quello che
per me era diventato un vero e proprio rito. Ed ero stato iniziato a esso senza quasi accorgermene.
Stavo a poco a poco sacrificando me stesso, il tempo da dedicare a mio figlio e anche lo stipendio e
annesso conto in banca.
Ci vollero anni per guardare in faccia la verità.
In principio andavo da lei soprattutto il fine settimana. Capitava anche di trascurarla a volte. In
fondo io mi ero comportato spesso così anche con mia moglie, prima della separazione. Poi con i
mesi il rapporto con la slot divenne sempre più intimo ed esclusivo. Mi capitava di desiderarla
anche quando ero a lavoro, mi ritrovavo a contare le ore che ci separavano. Iniziai a preferirla
perfino alla partita di calcetto del giovedì sera. Nei week end in cui mio figlio veniva a stare da me,
non potevo di certo presentargliela. Avrei evitato situazioni in cui uno dei due avrebbe potuto
soffrire di gelosia. Per un po’ il problema allora cominciò a essere mio figlio. Ero nervoso. Iniziavo
ad avvertirlo come un peso. Sembrava dovessi scegliere tra Lei e lui. Mi divoravano i sensi di colpa.
Quando lo vedevo colorare con i pastelli steso a pancia in giù sul tappeto del soggiorno, invidiavo la
sua pace. E più invidiavo gli altri, più desideravo andare da Lei. Solo davanti a Lei mi sentivo
completo.
Così ricordo ancora quel novembre, c’era la nebbia e il freddo giungeva nelle ossa. Era piovuto
tutta la notte. Fu la prima volta che feci una cosa del genere. Appena sveglio, alle sette, uscii per
prendere i cornetti per la colazione. Il piccolo dormiva nella sua cameretta, sentivo il suo respiro
pesante mentre giravo la chiave nella toppa. Al suo risveglio avrebbe trovato brioches calde al
cioccolato. Ci avrei impiegato al massimo quindici minuti e sicuramente era troppo presto per aprire
gli occhietti. La sera prima avevamo guardato insieme i cartoni animati fino a mezzanotte. Lo avevo
reso felice e desideravo rivedere sul suo volto la gioia. Adorava la Nutella e i cornetti appena
sfornati.
Di minuti ne passarono invece quasi sessanta, perché al bar dietro l’angolo della via adiacente casa
mia, dietro delle piante e vicino la toilette degli uomini, trovai una slot. Me ne accorsi perché,
mentre ero alla cassa a pagare, sentii un omone bestemmiare forte e andarsene rabbioso senza
salutare nessuno. Invece di uscire e tornare dal mio bambino solo a casa, andai a vedere cosa ci
fosse dietro quei tronchetti della felicità troppo cresciuti.
Era lì: luccicante e sola. Era stata appena abbandonata in malo modo. Mi sentii attratto più del
solito. Un brivido di sorpresa e gioia mi attraversò. Dovevo consolarla. Giocai. Persi quella volta,
ma ero felice lo stesso. Ora sapevo dove avrei potuto trovarla, se solo avessi avuto la smania di
possederla ancora. Non avrei dovuto percorrere chilometri. Ero come totalmente ipnotizzato. E quel
giorno il piacere fu interrotto da un altro cliente, che mi chiese se ne avessi ancora per molto. Avrei
dovuto stringergli la mano e ringraziarlo a vita. Fu in quell’istante che vidi la busta di carta con i
cornetti adagiata sul tavolino e mi ricordai che un bambino attendeva a casa da solo. Pregai che non
si fosse svegliato, affacciato al balcone e magari caduto giù. La mente si affollava di tragedie
probabili. Immaginavo già i lampeggianti blu sotto il palazzo, le donne affacciate con le mani sul
viso e i bambini spinti dentro per non vedere. Sarebbe potuto accadere di tutto, il peggio. Per
fortuna tornai ed era ancora nel lettino che sognava. Il respiro era ancora pesante, come quando ero
uscito da casa. Pensai per un istante a sua madre, alle lettere dell’avvocato. Quel giorno mi
spaventai davvero. Così mi ubriacai della sua presenza esclusiva. Spensi addirittura il cellulare. Non
dovevamo essere disturbati da niente e nessuno. Mangiò a gran morsi la brioche farcita per lui e
s’imbrattò di Nutella la bocca e le manine. Poi lo portai al parco in bici e ancora a fare una
scampagnata al lago per pranzo. Avevo bisogno di nuovo di cambiare aria. Desideravo spazi aperti.
Io e lui soltanto. La sera arrivò sua madre a riprenderlo. Lo strinsi a me più forte del solito e dopo
che vidi l’auto svoltare e allontanarsi, m’incamminai verso il bar della mattina. Quasi come un
automa mi ritrovai davanti alle saracinesche. Una signora anziana stava già mettendo a posto e
terminando le pulizie al bancone. Chiesi lo stesso il permesso di entrare e lei acconsentì per pochi
minuti. Una sola ultima partita della buonanotte. Tornai altre sere, ma prima della chiusura. Le volte
che vincevo erano meglio di un orgasmo. Mi giravo fiero mentre raccoglievo le monetine. Volevo
essere ammirato mentre in realtà perdevo me stesso. Mi piaceva che la gente mi reputasse capace.
Da quel giorno di novembre smisi di percorrere chilometri e isolati per raggiungere Lei, ora mi
bastavano cinque minuti di camminata. Cominciò a non importarmi neanche del giudizio degli altri.
Ognuno fa della sua vita ciò che vuole. “Non sto mica rubando qualcosa a qualcuno?” Continuavo
a ripetere mentre andavo da lei. Ci vedemmo sempre più spesso. Fu il mio amaro dopo cena per
parecchi mesi. Stavo con lei anche solo cinque minuti. Anche solo un incontro fugace ma
quotidiano. I sensi di colpa dormivano sonni tranquilli.
Feci amicizia con la proprietaria e con altri spasimanti come me. Il trovarla già impegnata, quando
arrivavo io, mi spazientiva. Mi accorsi di essere diventato un tantino intollerante. Forse sarà l’età
che avanza. Eppure nella mia vita non avevo mai provato gelosia, neanche per mia moglie
bellissima. Fu in quel periodo che ripresi anche a fumare. Mentre aspettavo il mio turno rispondevo
alla signora Maria, la proprietaria, e fumavo qualche sigaretta. Lei, mentre puliva la macchina del
caffè, s’impicciava di tutti. Amava regalare le sue perle di saggezza. Io, a differenza degli altri, ero
sempre vago. A nessuno davo il diritto di mettere bocca nelle mie faccende. Odiavo essere
compatito. Orfano da poco e separato con un bambino che vedo in modo altalenante. Sarebbe stato
un’ottima occasione per una seduta di psicoterapia casareccia. Appoggiato al tavolino, vedevo il
fumo disperdersi e fantasticavo invece su quanto avrei vinto. Ultimamente invece perdevo sempre e
non volevo quantificare le mie sconfitte. Cominciai a fare comunque una certa economia. Capitò di
cenare lì al bar con una brioche e un cappuccino. Ormai Maria a chiusura mi regalava pizzette
invendute. Io le dicevo che le avrei portate ai gatti randagi che gironzolavano sotto il mio palazzo. E
così “scroccavo” anche qualche sigaretta da lei o da qualche avventore, che come me era ormai di
casa. Un tempo me ne sarei vergognato. Ero ora diventato anche incapace di provare qualsiasi altro
sentimento. Stava diventando un amore totalizzante.
Vederla solo la sera non mi bastò più. E con la scusa dell’insonnia, mi ritrovai da lei anche prima di
andare al lavoro. Cinque minuti soli, mi ripromettevo ogni volta. Non mi rendevo conto invece di
trascorrere più di mezzora e così, dopo anni integerrimi in azienda, fui ripreso per i continui ritardi.
La scusa del traffico non poteva più reggere. E un bambino da accompagnare a scuola o dal dottore
io, a casa con me durante la settimana, non lo avevo più. Fioccarono lettere di richiamo e non solo
per i ritardi. Distrazioni, errori imputabili a cattiva gestione di quanto affidatomi. Cominciai a
rischiare grosso. Stavo anche dimagrendo. Forse fumavo troppo e mangiavo peggio. Divenni
oggetto di chiacchiericcio. Me ne accorgevo da quegli sguardi inquisitori, quando aspettavo
l’ascensore o camminavo nel corridoio. Lo specchio mi restituiva un’immagine che non mi piaceva.
Incuria. Forse questa era la definizione giusta per come stavo trattando me stesso. Qualche collega
avrà anche pensato che covassi un qualche male. Pensai di avere davvero un infarto, la volta che mi
decisi ad aprire l’estratto conto inviatomi dalla banca. Non potevo più negare l’evidenza. Scoprii
per la prima volta quanto mi costava in termini di denaro la mia passione insostituibile. Stavo per
andare in rosso, ma non avevo comprato una moto o un’auto nuova.
Per un solo istante mi mancò l’aria e non riuscii nemmeno a deglutire. Quello stesso giorno
l’avvocato mi ricordò che avevo qualche arretrato da dare alla mia ex moglie. Il bambino avrebbe
dovuto iscriversi a nuoto. Racimolai quel che avevo, appena mi fu accreditato lo stipendio del mese.
Dopo una settimana però cominciai a sentirmi sempre più giù. Sarà che non facevo più la spesa
come un tempo. Sarà che il mio carrello si riempiva di prodotti in offerta e cibi in scadenza già
pronti. Sarà che la mia vita sembrava avere senso solo davanti a quello schermo colorato. Anche
mio figlio non veniva più con piacere da me. Si annoiava, diceva alla madre. A volte aveva trovato
il frigo solo con acqua, latte e due uova e si era disperato. Un’altra volta aveva mangiato un
formaggino scaduto e aveva avuto per giorni la dissenteria. Lo avrà riferito di certo a sua madre e
lei al suo avvocato. Avrà raccontato alla madre anche che molte volte gli rispondevo male e che,
quando si svegliava, a volte non mi aveva trovato in casa con lui. La mia ex moglie m’ispezionava,
quando lo riportavo da lei. Non si fidava più di me. Io avevo intuito i suoi sospetti e le sue ansie di
madre. Mi fissava negli occhi, forse credeva che fossi finito in brutti giri. L’ultimo mese l’avevo
molto insospettita. Le avevo chiesto un piccolo prestito. Non avevo pagato in tempo la luce. Avevo
paura la staccassero, visto che non era la prima insolvenza mia. Sarà solo questione di tempo e mi
troverò nella buca la lettera del suo avvocato. Non mi opporrò. Ultimamente mi sento senza forza
né entusiasmo.
Anche con la slot è come se la fase dell’innamoramento fosse terminata. Ho cominciato a notare
qualche suo difetto. Forse devo relazionarmi con tutti in maniera differente. Temo di essermi
aggrappato a chi non sa nuotare e non sono certo che mi riuscirà a portare a riva. Sono stato di
nuovo il solito incapace.
Il dirigente mi ha detto chiaro e tondo di prendermi un periodo di aspettativa o di tornare quello di
prima. L’azienda non può tollerare altre disattenzioni. Il prossimo errore imputabile alla mia
inefficienza segnerà il mio licenziamento. Sarebbe la fine di tutto.
Mentre rientravo a casa a piedi, dopo aver venduto l’auto per saldare qualche debito, intravidi per la
prima volta un anziano sudicio e calvo che elemosinava spiccioli. Era su un cartone annerito dallo
smog. Le sue mani tremavano. I suoi sorrisi sdentati incutevano più paura che pietà a chi usciva dal
supermercato. Non aveva fame. Doveva comprare un altro cartone del vino rosso che l’aveva reso
così. Inebetito e incapace di dare senso alla sua vita. Non riuscivo a staccare gli occhi da quel relitto
umano. Mi scese una lacrima. Una sola.
Quella sera filai a casa, svoltando dal lato opposto rispetto al bar di Maria.
Ripresi le gocce che avevo sospeso da tanto. Dose doppia per dormire come un ghiro.
Cominciarono gli incubi. Gridavo senza voce. Nessuno poteva sentirmi. Alcune persone giravano le
spalle. Io restavo solo. Mi svegliavo madido di sudore, gridando sempre un nome differente.
Il mattino dopo però fui certo di aver sognato Lara, la mia ex moglie.
Quando entrammo in crisi Lara mi propose di seguire una psicoterapia di coppia. Aveva gettato
un’ancora al nostro matrimonio. Io rifiutai. Nessuno dei due aveva tradito la fiducia dell’altro,
nessuno era andato a letto con nessuno. Io non riuscivo a comunicare con lei, figuriamoci con uno
strizzacervelli. Cosa avrebbe potuto fare un estraneo per noi? La amavo a modo mio. A lei non
bastava. Era spesso da sola con il bambino piccolo. Avevo dimenticato di cosa aveva bisogno la
coppia. Non le rivolgevo mai complimenti. Non ricordavo più neanche l’ultima volta in cui l’avevo
stupita ricordandomi una cosa che piaceva più a lei che a me. A volte le rinfacciavo perfino il tempo
trascorso tutti insieme. Ero più padre che marito, quando lei decise di rivolgersi all’avvocato.
Il pretesto fu il mio rifiuto di avere un secondo figlio. Lei si sarebbe sentita più in compagnia, io
molto più responsabile. Poi era morta anche mia madre. Ero incapace di reagire a ogni notizia dopo
quell’evento. Ero annientato. In poco tempo avevo perso le due donne della mia vita. Una in modo
irreparabile, l’altra avrei potuto trattenerla. Forse. Maledizione continuavo a dare la responsabilità
agli altri. Più rimuginavo, più avevo voglia di essere davanti a una slot.
Non riuscivo a starle lontano. Incapace anche in questo. Giocai di nuovo, persi e poi vinsi. Promisi
a me stesso. Giurai guardando la foto di mio figlio sul telefonino. Ci ricascai sempre peggio. Andai
in rosso in banca. Telefonai a Lara. Le chiesi un appuntamento al parco sotto casa, dove un tempo
andavo a correre per smaltire chili e stress. Con voce tremante per la prima volta le chiesi aiuto.
Fu mentre andavo da lei che vidi lampeggianti e auto vicino l’angolo del supermercato. Per un
attimo avevo avuto il terrore che si trattasse di Lara. Qualche auto magari aveva investito un
pedone. Mi avvicinai. La calca rumoreggiava. Ripetevano in coro l’età: quaranta anni. La mia stessa
età. Mi feci spazio per vedere dove tutti guardavano. Il clochard, quello che, qualche giorno prima,
mi era sembrato molto più anziano, era disteso, raggomitolato sotto il plaid rosso. Non si muoveva,
non rispondeva, non respirava più. Aveva chiuso gli occhi per sempre, stretto al suo cartone di vino
rosso da quattro soldi.
Ingoiai con forza saliva e qualche lacrima repressa. Cercai Lara in quella folla e la vidi svoltare
l’angolo della strada in lontananza. Bellissima e di nuovo in carriera. Non aveva bloccato la sua
vita, come avevo fatto io. Aveva ripreso dal punto in cui la gravidanza e un marito incapace di
comprenderla davvero avevano interrotto il suo talento di architetto. Lei non lo guardò nemmeno il
mendicante morto. Camminava dritta e veloce verso di me.
Poi le raccontai tutto. Per la prima volta smisi di mentire o minimizzare. Piansi tutte le lacrime che
avevo. Piansi per mio padre, mia madre e per me. Un amore rovinato quello con Lara, un amore
malato quello di ora con la slot . Pur volendo, non riuscivo a liberarmene da solo. Fu quel giorno
che chiesi a Lara di disporre lei per me dei miei soldi. Le diedi password del conto in banca e
bancomat. Allontanavo ogni possibile tentazione. Avevo bisogno di qualcuno che tenesse il timone
per non far affondare ciò che potevo ancora salvare. Mi sentivo come un relitto. Ero allo sbando da
troppo tempo. Ero diventato inaffidabile e bugiardo come non lo ero mai stato. La mia superficialità
era come una zavorra. Non riuscivo a risalire. Avevo incubi e attacchi di panico quotidiani. Non
potevo lavorare così. Non potevo essere più il padre amorevole. Avevo bisogno di mio figlio e della
donna che non avevo mai smesso di amare.
Quel giorno non le dissi nulla di noi, ma dopo che mi chiamò “malato” la abbracciai forte e le
sussurrai: “Ora lo so. Sono malato, ma voglio guarire. Voglio essere di nuovo padrone io della mia
vita”. Continuavo a tirare su con il naso e le lacrime non si arrestavano. Dentro lottavano sensi di
colpa, insicurezze, sentimenti repressi.
Lara allora cacciò dalla borsa un biglietto da visita. Bisognava pur iniziare da qualche parte. Era il
numero del suo psicoterapeuta. Uno di poche parole ma buone, mi disse subito. Mi fidai dei suoi
occhi buoni che avrebbero potuto disprezzarmi. Lara mi aiutò. Mi raccolse da terra quel giorno e mi
sostenne in un lungo percorso, che forse non si concluderà mai. Fu Lara ad accompagnarmi alle
riunioni con altri ludo patici come me. “Nessuno si salva da solo, se non lo vuole” Queste furono le
parole che nel sogno mi disse Lara. Poi le ricordai. Me le ripeteva ogni volta che poteva.
Lei mi aspettava, dopo le riunioni, con mio figlio che scorrazzava in bicicletta o mangiava in auto
le patatine. Loro così mi sostenevano, ma la vera forza l’ho trovata quando pian piano ho
rimarginato ferite profonde, che non sapevo neanche di avere.
Con il tempo ho imparato a perdonare me stesso e gli altri. Sono stato capace di smettere e sono
tornato al paesello. Ho varcato quel cancello nero. Sono andato sulla tomba di mio padre a lasciare
un fiore e a presentargli la bambina che è in grembo a Lara. Abbiamo deciso. Si chiamerà proprio
come lui: Vittoria
Scritto da Silvana Severino