Ciascuno ha i suoi motivi
Sono uno che ha bevuto e si è drogato per quasi un quarto di secolo. È dura da accettare ma sono un alcolista e un tossicodipendente.
Ho deciso di scrivere su questi temi poiché ritengo possa farmi maledettamente bene e non solo.
Non posso mentire a me stesso con carta e penna e forse qualcuno potrebbe trovare illuminanti le mie parole.
Non necessariamente perché chi mi leggerà, e spero per lui non sia così, potrebbe riconoscersi in qualcosa che dico o peggio averlo vissuto in prima persona, ma forse perché grazie a questo riuscirà ad avere maggiori informazioni e un punto di vista più ampio sulle dipendenze, su quello che nel concreto possono causare.
Nella testa le metaforizzo un po’ come la nebbia in campagna, fitta, in inverno. Neanche con il più affilato dei coltelli le puoi tagliare. T’impediscono di vedere cosa c’è a un palmo dal naso. Con le sostanze le persone cambiano e la dipendenza ricade anche su chi ti sta accanto e ti sopporta, almeno fino a quando riesce.
Chi meglio di chi ha l’incredibile fortuna di averne viste, bevute e pippate di tutti i colori può quindi raccontare della dipendenza usando la propria storia.
Allora cominciamo.
In Franciacorta quando s’imbottiglia il vino, un persistente profumo di mosto si diffonde nell’aria, viziata e torbida, dalle improvvisate cantine artigianali che ciascun contadino possiede. Molti usano metodi che si tramandano da generazioni, veri e propri segreti di famiglia.
Spesso è più quello che si beve nel mentre che quello che effettivamente finisce sotto vetro.
Si pratica un vero e proprio rito con vino, pane e salame.
Se penso ai miei nonni non posso che ricordarli indaffarati con la canna di gomma in bocca, la stessa che usano per innaffiare l’orto, a gustarsi fino all’ultima goccia del prezioso liquido invece che farne bottiglie; bevono talmente tanto da scoppiare in risate inutili e fragorose, alquanto fuori luogo, prive di vero significato se non quello dell’euforia che il bere concede.
Ai miei occhi di bambino con uno spettro di autismo in sindrome di Asperger, abituato a starsene spesso in disparte e per i fatti suoi, paiono i personaggi di un quadro di Angelo Inganni. I salami pronti all’uso, appesi a improbabili trespoli, fatti con la legna tagliata nel bosco, protetti dai topi grazie a un massiccio uso dell’agrifoglio che occlude ogni via agli affamati esploratori, costituiscono lo sfondo del dipinto.
Sono il ritratto della gioia di vivere, della semplicità e dell’allegria. Con loro passo gli unici momenti spensierati e in compagnia della mia acerba esistenza. Sovente capita che diano anche a me acqua vino e zuccherino.
Spesso e d’improvviso il clima però cambia. Ricordo tuttora i racconti sulla seconda guerra mondiale e i suoi orrori: si dice che bevendo ci si scordi delle cose brutte ma in realtà, se esageravano ed era una cosa assai frequente, parlavano per ore proprio di quello che avrebbero voluto dimenticare.
Mi sono sempre chiesto il perché, se si beve per dimenticare, quando si è ubriachi succede tutto l’opposto e per di più in modo distorto, senza la necessaria lucidità per analizzare ciò che si ha in testa. Nessuno ha mai risposto a questo enigma. Forse ciascuno ha i suoi motivi per bere e forse quel liquido tanto amato ci conosce e sa quali sono i nostri dolori più reconditi.
Entrambi i nonni si ammalano di cirrosi epatica.
Il nonno materno vola in cielo quando ho solo cinque anni.
L’altro, costretto a sottoporsi alla dialisi per più di vent’anni, non è più la stessa persona, qualche goccetto di nascosto se lo concede ancora nonostante la salute precaria, certo niente di paragonabile a prima, ma fino alla fine non chiude i rapporti con quella brutta bestia che è l’alcol. Il suo ultimo desiderio è un bicchiere di vino bianco.
La mia infanzia è complicata e io lo sono più di lei. Non capisco quello che di buono ho attorno. Ho i paraocchi, da sempre mi definisco un’autodidatta, di che materia non l’ho ancora capito.
Cresco, e con il tempo la situazione relazionale peggiora. Vengo preso in giro e messo da parte, in qualsiasi contesto e ambiente. È sempre la solita solfa ogni cosa io faccia. Non mi piaccio affatto. Non sono l’adolescente spensierato che vorrei e le cose sono destinate a peggiorare e, incredibilmente, di molto.
Tutti i giorni mi alzo alle cinque del mattino, mi preparo per andare a piedi a prendere l’autobus che dopo più di un’ora di strada mi porta a scuola in città. Durante il tragitto che dalla campagna conduce alla civiltà, me ne sto seduto a fantasticare nel mondo parallelo che mi sono creato e che costituisce un sicuro rifugio dalla presunta cattiveria altrui e dalle mie paradossali paure.
Giunto a destinazione mi dirigo verso l’istituto tecnico che frequento, testa bassa e passo veloce, come tutti i giorni, stessa strada, stesse cose. Conosco a memoria i cartelli stradali, i tombini, ogni buca dell’asfalto e mi diverto a memorizzare le targhe delle automobili parcheggiate, sfidando la mia memoria a ricordarne i numeri e abbinando modello e colore del mezzo da lontano.
A quell’epoca gli smartphone non erano ancora nemmeno nei sogni più segreti di Steve Jobs e della sua mela, bisognava ingegnarsi.
Quel giorno piove, adoro la pioggia che cade, amo sentirne le gocce sul viso, sa di romantico. Il percorso non è breve e a un tratto vengo raggiunto da una compagna di scuola ripetente che spesso si prende gioco di me. Da qualche tempo ho una cotta per lei ma non ho di certo il coraggio di dirglielo. Già salutare una ragazza e trattare argomenti banali è per me impresa paragonabile a scalare l’Everest in solitaria, in inverno e a piedi nudi, figuriamoci parlare di innamoramento o amore, dichiararmi poi è impresa impossibile!
Sta il fatto che con suadente gentilezza e con la scusa di preparare insieme il difficile compito in classe che, di lì a poco, ci sarebbe stato mi convince ad andare a casa sua. Non credo alle mie orecchie e agli occhi da tanto è bella: accetto stracolmo di felicità.
È arrivato il tempo della riscossa, è giunto il momento di dare un bel calcio nel sedere alla sfiga!
Arrivati, neanche me ne accorgo che me la ritrovo sopra a cavalcioni sul divano. Pare una mantide che sbrana la sua preda. Estremamente squallido. Divento uomo senza neppure dare il primo bacio. Mi aspetto parole dolci, complicità, tenerezza e carezze. Niente di tutto ciò. Appena finito si riveste in fretta e furia, borbotta frasi sul chi le manca ancora da portarsi a letto, o meglio sul divano, per completare la sua collezione. Comprendo che sono di troppo e velocemente raggiungo l’uscio che si chiude dietro alle mie spalle, sospinto dalla ragazza, e che fa un rumore cupo quasi a mandarmi a quel paese pure lui.
Impiego il resto della mattinata per raggiungere la stazione. Vi arrivo bagnato dalla testa ai piedi, mi sento un cuore infranto, abbandonato e inzuppato.
Ripensandoci oggi mi faccio tenerezza.
Sul pullman il volto si riflette sui vetri, con le dita della mano ne seguo i solchi, quasi a volermi accertare che sono ancora io. È il viso di uno sciocco, di un fessacchiotto per il quale è giunta l’ora di fare qualcosa per darsi una mossa e cambiare la sua vita. Sento che nessuno mi vuole bene, a cominciare dai miei genitori sempre indaffarati in improbabili iniziative economiche intraprese senza la necessaria lungimiranza e facendo il passo più lungo della gamba. In casa non si vedono praticamente mai e quando ci sono litigano in continuazione e alzano, oltre alle mani, pure il gomito.
Sono figlio unico, ai miei occhi tutto è un disastro. Ovunque guardo vedo unicamente nero.
Quando si aprono le portiere corro a cercare riparo sotto l’albero vicino alla fermata, l’acqua viene trattenuta da enormi foglie che paiono delle grondaie, almeno fino al punto in cui il peso diventa eccessivo e un getto che pare un fiume in piena mi colpisce in testa. Mi sento solo come non mai, mi scoppia la testa con tutti quei pensieri. Sono sempre più fradicio.
Recupero forza e coraggio per dirigermi a casa.
Il cielo è buio e la pioggia cade a catinelle, quasi a farmi ulteriore male, anche lei. In casa fa un gran freddo cane, nulla è pronto da mangiare e non trovo neanche i vestiti per cambiarmi. Sono solo, sempre più solo. Sono la vittima del mondo intero! Voglio solo essere felice!
Passa un lungometraggio nella testa, non è una prima visione: vedo i nonni giulivi che ridono in cantina in mezzo alle damigiane. Annuso l’aria, cerco gli odori di allora, arriva una scossa improvvisa, mi metto a tremare. Corro verso la vetrinetta dove mamma e papà tengono gli alcolici e senza pensarci un istante prendo la prima bottiglia che trovo e in pochi sorsi me la scolo tutta. In quel momento succede qualcosa. D’improvviso la testa si svuota e sento un gran caldo.
Eureka, sono libero! Inizio a ridere a crepapelle.
Ho finalmente trovato il sistema per essere felice, alla faccia di quegli stolti dei nonni che probabilmente non bevevano a sufficienza oppure il vino non aveva la gradazione necessaria per distoglierli dai deliri sulla guerra.
Ubriaco e novello scienziato, formulo una delle mie tantissime improbabili teorie che in seguito scoprirò errate, un po’ come per chi scopre l’acqua calda.
“Bere, bere e ancora bere, se hai dei dubbi bevi di più!”. È il mio primo postulato.
In quel momento la mia vita cambia radicalmente. Nella mia testa fa breccia la trasgressione verso una medicina che può curarmi. A volte mi piace dirmi e pensare che senza quella disavventura amorosa non avrei iniziato a usare alcol. Non ne sono sicuro al cento per cento e magari, anzi sicuramente, anche questa è l’ennesima scusa. Forse alla prima difficoltà l’avrei fatto comunque, ero debole e nessuno mi aveva spiegato cosa significa affrontare i problemi, valutare nel giusto modo le situazioni e trovare soluzioni. Non ero bravo a chiedere aiuto, non era nelle mie corde e forse sapevo che nessuno mi avrebbe teso la mano.
Trascorro il tempo a farmi assurdi e drammatici film mentali in cui mi ci butto a capofitto. I goccetti diventano la quotidianità, ho una soglia di tolleranza altissima, dovuta come scoprirò poi a una preziosa disfunzione epatica. Si, ma non basta! Posso bermi tutto quello che trovo, ma esco da casa solo per andare a scuola, così non va!
Voglio una vita sociale come i miei coetanei!
Inizio a consultare testi sulle droghe, partorisco un’altra teoria dell’acqua calda. Decido di curarmi associando l’uso dell’alcol ad una sostanza stupefacente tipo anfetamina, cocaina o eroina.
Dopo un’approfondita analisi empirica ho la convinzione che mi ci vuole la polverina bianca. “Insieme all’alcol si deve assumere cocaina”. È il mio secondo postulato.
Non so però come ottenerla, in campagna crescono tante cose sugli alberi: frutta, verdura, gente che non si fa gli affari suoi, ma quella no. Metto temporaneamente da parte la mia idea.
Un giorno, un compagno di classe della nuova scuola più vicina a casa, in cui mi sono da poco trasferito per alzarmi meno presto la mattina, passa da casa a domandare aiuto per fare i compiti. Sono sempre stato fortunato con i compagni di classe che mi chiedono aiuto. Beviamo e poi mi offre della cocaina. Immediatamente la sniffo. Ho studiato l’argomento e sicuramente non avrò problemi a gestirla. Mica sono un debole o un babbeo come gli altri. Posso smettere quando voglio. Non diventerò mai un drogato. Sono forte io.
“Se sei forte, è possibile gestire e pianificare l’assunzione di droga”. È il mio terzo postulato.
Perfetto si comincia.
Sbronzo e stupefatto, quasi butto giù il cancello di casa per la foga dell’uscire e andare in paese. Immagino in cinque minuti di conoscere migliaia di ragazzi e ragazze in un borgo con non più di quattromila anime. Giro da solo a vuoto per ore e poi soddisfatto, non si sa di che, rincaso. Eh già, le sostanze hanno il pregio di non far vedere bene la realtà e ti aiutano a costruirne una tutta tua. Come per l’alcol l’assunzione della sostanza diventa praticamente subito compulsiva. Ora chi mi ferma più?! Sono un supereroe!
E giacché la fortuna non è mai troppa, a breve i miei genitori si separano.
Sono da poco maggiorenne, decidono che posso vivere da solo, nella grande casa che hanno appena acquistato, ovviamente tramite un grosso mutuo intestato a me, con una rata mensile che neanche se lavoro sei mesi posso anche solo sognare di onorare.
Dettaglio non da poco, ho ancora l’ultimo anno della scuola superiore da terminare, sono pieno di debiti per delle altre firme fatte a garanzia dei lungimiranti investimenti dei miei, che rapidamente si dimostrano catastrofici, non ho soldi in tasca e, dulcis in fundo,bevo e mi drogo.
Passo le mie giornate fra scuola, ufficio di famiglia dove sbarco il lunario di rinfa e di ranfa, gli specchietti imbiancati e i mille vuoti sparsi per casa. Per fortuna non esiste ancora la raccolta differenziata del vetro nel comune dove abito, altrimenti dovrebbero mettermi fuori casa una campana verde così grande che non riuscirei più a vedere il sole dalle finestre e dovrei anche pagare le tasse per l’occupazione del suolo pubblico.
M’ingegno, in modo non sempre legalissimo, così che i soldi non manchino. Ottengo il diploma e poi m’iscrivo all’università. Passo il tempo nelle enoteche vicine alla facoltà o nei bagni dell’ateneo a vomitare e sniffare. Anziché, anche solo lontanamente, pensare di laurearmi, fra un Erasmus e l’altro, nei successivi sette autunni scopro nuove realtà, alcoliche e stupefacenti.
Sono un bel ragazzo e grazie alle sostanze sono assai disinibito, saltare da un letto all’altro, senza la benché minima precauzione, diventa una pericolosa abitudine quasi a voler far pagare a tutte le donne quello che il primo amore ha fatto passare a me.
I rapporti con i miei genitori sono disastrosi e non è di certo solo colpa loro. Quando ci incontriamo tutti e tre, la stanza diventa satura delle esalazioni di alcol provenienti dai nostri fiati, veniamo spesso alle mani e volano parole grosse che una volta dette è difficile dimenticare. Papà beve, mamma pure, entrambi non scherzano con la bottiglia in mano. Stanno perdendo tutto. Non riesco a mettermi nei loro panni. È inutile negare che la cosa non mi dispiace per niente. Ecco la mia vendetta: farmi ancora di più, alla faccia di tutti e due!
Iniziano le nottate in discoteca e nei locali alla moda, il mal di testa, le emorroidi grandi come noci, le pisciate con il culo alla mattina, il bruciore perenne allo stomaco tanto da vomitare così forte che il pavimento sotto il water pare bucarsi. Il fegato è talmente grosso che vorrebbe saltare fuori dal corpo per prendermi a calci prima di chiedere asilo politico presso la sede di una ditta di acque minerali. Poi tutto passa, tranne il tremore alle mani che però non mi fa mai cadere il bicchiere o la bottiglia mentre la scolo. Nessuno mi può fare delle osservazioni, sono così e basta! Il mondo mi odia e questo è il mio sedativo! Vadano tutti affanculo, sono io la vittima. Di quale carnefice non lo so.
Verso i ventitré anni rivedo, per caso, una vecchia compagna delle scuole medie e questa volta non mi chiede di fare i compiti bensì di sposarla. Dopo allora, visti i trascorsi, evito come la peste i vecchi compagni di scuola perché non si sa mai.
Comunque cedo ma già durante il fidanzamento sono un disastro. Racconto bugie in continuazione per assentarmi e nell’intimità lasciamo perdere. Passo l’addio al celibato a vomitare alcol dal finestrino dell’auto e se metto dentro la testa è solo per la mia amante bianca. Nel giorno del matrimonio nulla da segnalare, alcol e droga presenti, addirittura prima di entrare in chiesa. Viaggio di nozze idem con patate. Sono proprio il marito ideale, quello che non c’è mai e che se c’è sta in piedi tutta la notte e la mattina devi stare attenta a scavalcare i vuoti che non ha l’accortezza di nascondere dietro al divano. Non c’è amore ma nessuno fa il primo passo, le sostanze fanno in modo che tutto mi scivoli via. M’importa solo di me stesso.
Dopo quattro anni una mattina trovo mia madre ormai alcolista e tossicodipendente, che abita nella casa di fronte, quella che ho lasciato libera dopo il matrimonio e ancora da pagare, impiccata al balcone di casa. È morta nel cuore della notte, da sola come un cane ed è già fredda, aveva quasi quarantanove anni. Nessuno dei vicini l’ha sentita urlare. Penzola con la catena, pare un pendolo che ipnotizza il mio sguardo. La sera prima continuava a chiamarmi sul cellulare ma non volevo risponderle perché stavo soddisfacendo le mie buone abitudini e non avevo tempo per lei e le sue rotture di scatole. Il biglietto che scrive prime di quel gesto non lascia spazio a dubbi: mi accusa di averla abbandonata. E io allora accuso mia moglie di avermi messo contro mia madre. Tutti accusano tutti ma nessuno accusa i veri colpevoli.
È un brutto colpo.
Divorzio e scappo con la cugina, a malapena maggiorenne, della mia ormai ex moglie: l’unico obiettivo è fare un dispetto alla famiglia della mia compagna. La storiella dura da Natale a Santo Stefano come la maggior parte delle cose che faccio, vivo di una superficialità sconvolgente, non affronto le cose e mi volto sempre dall’altra parte, l’importante è avere il sacchettino pieno e la cantina fornita, la mia vita va a rotoli e non solo non faccio niente ma neanche me ne accorgo.
Smetto di lavorare e torno nella casa della tragedia. A pagarla penserò poi, o meglio, mai. Una scelta che non ho mai compreso, fino in fondo, date le disponibilità economiche dell’epoca.
Un giorno si presenta mio padre, con i suoi ultimi tre euro in tasca; è mezzogiorno e ho parecchi perdigiorno miei simili che bazzicano fatti e bevuti, seduti attorno a una grande tavola imbandita: messe in piedi e in fila, tutte le bottiglie arrivano sicuramente a sei o sette metri. Con assoluta tranquillità e senza farsi troppe domande, si unisce al carrozzone. A scrocco, mangia e beve come un forsennato.
In cuor mio sono contento di rivederlo: siamo soli entrambi e magari potremmo recuperare il nostro rapporto. Ho già perso la mamma, vorrei che stavolta andasse diversamente; abbiamo tante belle cose in comune, tipo la voglia di lavorare e l’amore per la bottiglia.
Almeno lui non si droga, anzi odia che io lo faccia e in continuazione mi fa la morale che io prontamente rimando al mittente: “Qui comando io! Se non ti sta bene la porta è quella, sono io che finanzio tutto quanto, quindi o accetti o te ne vai. Se viviamo nel lusso è solo grazie a me. Fosse per te…”
La mia vendetta è compiuta: ogni pretesto è valido per ricordargli il fallimento che è stato, è e probabilmente sarà. E come godo quando mi grida in faccia che sono un tossico e io lo mando a quel paese sapendo che non può fare nient’altro che subire.
Spesso vado in giro per il mondo con qualche amico o amica. Praticamente è come non muoversi mai da casa. Giunto a destinazione corro a chiudermi, o in un bungalow o in una stanza d’albergo, a consumare alcol e sostanze; viaggio sempre con un bagaglio molto leggero, a me non servono abiti e scarpe, mi bastano liquori e droga. E quando torno sono più pallido di prima, vado ai tropici e sembro un cadavere, neanche fossi stato sei mesi a Barrow in Alaska, avrei quel colore. Altro bel modo di spendere i propri soldi.
Nel tantissimo tempo libero continuo a cercare la donna giusta. Non ho la minima idea di quello che cerco: esco e m’innamoro ogni cinque minuti.
Ricordo l’imbarazzo a volte quando la mattina in motel neanche ricordavo chi ero, quello che avevo fatto la notte appena finita e chi fosse quella accanto. Certo che le sostanze ne hanno proprio tanti di pregi: ti fanno dimenticare tutte le cazzate che fai!
Suona il primo campanello d’allarme. Ho un infarto ma mi riprendo in fretta, fuggo ai successivi controlli medici. Mi sento immortale.
A un certo punto, mi risposo con una bellissima ragazza che è la donna perfetta per me: beve, si droga e si disinteressa di tutto. Abbiamo moltissimi argomenti su cui parlare ma siamo sempre così fatti da far fatica ad aprire la bocca. Stiamo muti per quasi tre anni.
La storia finisce quando ho un nuovo infarto, molto più forte del precedente, dovuto a un’overdose di cocaina ed eroina che mi manda in coma. Al risveglio lei non c’è più. Pazienza, morto un papa se ne fa un altro.
Faccio spallucce e una volta dimesso torno a casa mia. Prima però passo dal bar e dallo spacciatore. Non voglio che il cuore si abitui troppo bene.
Sono anni di delirio. Penso che il mondo giri attorno a me. Non trovo nemmeno le parole per descrivere ciò che ho visto e fatto, anche in compagnia di mio padre, o forse vorrei solo dimenticare e ricominciare da zero.
Poi inaspettatamente papà a cinquantasei anni, quindi ancora giovane, si ammala e d’improvviso muore, a distanza di sette primavere dalla mamma. Ci lasciamo con un sacco di cose da dirci e almeno in questa vita non potremo più farlo, complice anche la mia decisione di nascondergli la malattia. Da sempre sono egoista e decido io anche per gli altri.
È un’altra brutta batosta.
Ma me ne importa davvero?
Io, se sto male, so come curarmi, non mi serve andare da costosi psicologi, ho i miei vizi a farmi compagnia e con loro passa tutto. Qualsiasi cosa, anche le peggiori, scivolano via.
The show must go on.
Sono al centro delle malelingue e dei pettegolezzi del paesello, mi guardano tutti di traverso. Ne combino di tutti i colori. Mi nutro di invidie e gelosie; la cattiveria degli altri ora è per me linfa vitale, mi sento figo.
Arrivano alcuni guai giudiziari, ma non mi preoccupo perchè tanto in Italia non si va in galera per queste cose, altra teoria dell’acqua calda.
“La giustizia non funziona e per i reati fiscali non si va in prigione”. È il mio quarto postulato.
Certo, non si andrà in carcere però può succedere che lo Stato qualche confisca la faccia. A me naturalmente capita e non è per sfortuna. Porgo tanti saluti a quella casa mai pagata, se la prendono e mi trasferisco nel paese accanto. Adesso sono io che mi ritrovo con tre euro in tasca, proprio come mio padre qualche anno prima: il destino a volte è proprio beffardo!
Non ho da mangiare, luce e gas sono staccati, ma a me interessa solo riuscire a reperire due cose: l’alcol, mi accontento anche di quello che costa meno, e la sostanza: mica posso restare senza i superpoteri, proprio ora no!
Il tribunale poco dopo dichiara pure il fallimento di un paio di mie aziende. Ovviamente festeggio l’evento alla mia maniera anziché andare a cercare un buon avvocato. Oramai dormo al massimo un paio d’ore ogni quarantotto, ho due occhiaie che neanche i panda giganti possono vantare, a volte saltello perché non riesco nemmeno più a camminare talmente sono sotto effetto.
La cosa assurda è che per me tutto è normale, mi sento come tutti gli altri, ammiro me stesso per riuscire a prendere questa vita senza paura, con il naso imbiancato e l’alito che sa di vino.
Inizio ad avere anche allucinazioni e psicosi, addirittura in tre dimensioni o anche più. Vengo ricoverato per un’intossicazione acuta di alcol e cocaina. Scappo dalla psichiatria dell’ospedale appena posso. Mi consigliano di rivolgermi ai servizi per il trattamento delle dipendenze ma ovviamente sono convinto di non averne bisogno, che ci vadano loro! Gli attacchi di panico così come gli accessi ai vari pronto soccorsodiventano il pane quotidiano; non tiro il freno a mano, preferisco convivere con le visioni con le quali addirittura parlo e instauro un rapporto amichevole. Sono così e basta, posso gestire tutto. Ricordate il terzo postulato: io sono forte.
Incurante dei guai con la giustizia, non immaginando che poi sarebbero diventati un problema reale, proseguo nella mia deviata quotidianità. A volte non so nemmeno che giorno della settimana sia.
In un agriturismo conosco quella che diventa la madre del mio unico figlio. Dopo poche uscite rimane incinta. Diventare padre è una cosa che ti cambia la vita e che può veramente spronarti e farti cambiare ma ahimè per me non è così. Prendo la cosa con troppa superficialità e leggerezza, nonostante intuisca sia la cosa più bella che mi sia mai capitata. Anche il quel caso la storia sentimentale dura quanto la neve a ferragosto e me ne vado pochi mesi dopo il parto; ho almeno il buon senso di cercare di mantenere strettissimi rapporti con la mia ex convivente per non perdere mio figlio. Mi sa che anche lì teorizzo sull’acqua calda.
“Si può essere sia un buon padre a distanza e a tempo parziale sia un alcolizzato tossicodipendente”. È il mio quinto postulato.
Nemmeno per un secondo considero di smettere, non mi metto mai in discussione. Organizzo la giornata tentando di gestire queste cose tutte insieme: porto mio figlio al parco con il passeggino a una velocità assurda neanche fossi un centometrista, all’asilo sono il papà più veloce del west. La frenesia del voler fare mille cose e tutte in una volta è impressionante. Non mi godo pienamente neppure un istante di quei momenti. Continuamente compero a mio figlio ogni sorta di giocattolo quasi a voler inconsciamente compensare quello che non riesco a dare. Sono spessissimo con lui, ma mentalmente abito sulla luna, a migliaia di sballi di distanza.
Ora, a distanza di tanti anni, mi ripeto sempre che quel tempo avrebbe potuto e dovuto essere usato meglio!
Ma torniamo a noi.
Passo da una teoria sbagliata all’altra, mi convinco ulteriormente che anche i reati possono essere pianificati con un rischio più che accettabile, dato che comunque in Italia non si va mai in carcere.
“Si può programmare la commissione di reati e farla franca, esiste il disegno criminoso impunibile”. È il mio sesto postulato.
Queste azioni mi permettono di avere disponibilità economiche, vizi soddisfatti e il maggior tempomalatolibero possibile per fare il papà anche se la mia prima casa restano i bar e le osterie.
Creo un mondo perfetto ad hoc per me. Sono bravo. Mi faccio i complimenti da solo, mi sento un genio. Non capisco proprio quelli che lavorano quattordici ore al giorno e non arrivano neanche al ventuno del mese, come cantava qualcuno. Certo, a volte la mattina, prima di andare a dormire, anche se solo per un secondo, mi guardo allo specchio e sinceramente me ne dico di tutti i colori, inizio pure a farmi le solite sopravvalutate e mai mantenute promesse, come che questa è l’ultima volta e altre fesserie simili. Mi giustifico dicendomi che i momenti di debolezza possono capitare anche ai più forti.
Purtroppo passati sette inverni dalla morte di mio padre e giusto perché in Italia nessuno viene mai punito, vengo arrestato e portato in prigione, dove sono tuttora. Fino all’ultimo secondo bevo e mi drogo, smetto non per mia volontà ma perché sono obbligato a farlo.
Ma finalmente qualcosa dentro di me cambia. Conosco l’astinenza, ritrovo un po’ di lucidità e così chiedo finalmente aiuto.
Sono trascorse ormai altre sette estati, adesso ho quarantotto anni.
Ma questa è un’altra storia, parla di lacrime amare, del fatto che ciascuno ha il proprio modo per voler bene agli altri, del capire che i problemi nella vita li hanno tutti, dello smetterla di autocommiserarsi e di vivere di rimpianti, dell’imparare ad accettare che il tempo perduto non tornerà mai indietro e che con i sensi di colpa bisogna convivere, del guardarsi dentro, dello smettere di enunciare stupidi postulati e mettersi finalmente in discussione scendendo dal piedistallo, del riprendere a studiare e del voler finire a tutti i costi l’università, del possibile cambiamento e di quanto desideri ora un abbraccio di mio figlio, anche adesso, proprio mentre scrivo.
Non ti ruberò ulteriore tempo, chiuderò qui e non ti dirò altro.