VINCITA POTENZIALE
Sto camminando, la testa mi fa un po’ male. È da quando sono uscito dal lavoro che ho questo dolore fastidioso che non smette mai di esserci. Arriva sempre verso le diciotto, dopo aver finito il turno. Non appena varco la porta d’uscita della fabbrica vengo sopraffatto da una fitta improvvisa che si estende a tutto il cranio, dalla nuca fino alle tempie. Forse sarà per lo sforzo, i turni sono massacranti allo stabilimento. Vado a lavorare alle sette, con il sole che deve ancora sorgere, ed esco di sera, con la luce che se n’è andata da un pezzo. È buio, le uniche illuminazioni che vedo durante tutta la giornata sono quelle del reparto e quelle di casa mia. Vivo con Vanessa, forse c’entra anche lei con i continui mal di testa. Ci siamo trasferiti un anno fa, prima abitavamo entrambi a casa dei nostri genitori. Abbiamo traslocato d’estate, quel giorno pioveva. Ci eravamo bagnati tutti, compresi i suoi nonni che si erano offerti di darci una mano. Lei non mi sopporta più, stiamo litigando oramai da un paio di mesi. Non la capisco, a volte fatico a comprendere i suoi sbalzi d’umore. Mentre discutiamo o ci insultiamo a vicenda, la sua pelle diventa rossa ma di un rosso strano, quasi minaccioso. Mi dice continuamente che dovrei stare più attento con quello che guadagniamo. Non siamo miliardari e non riusciremo mai ad esserlo. Vanessa è un’impiegata, si occupa di gestire i conti per un’azienda di trasporti, a mezz’ora da casa nostra. Prende l’autobus per arrivarci, si siede sempre ai primi posti per evitare gli studenti che vanno a scuola. Ultimamente sembra demotivata, non mi guarda più come prima. I litigi di certo non hanno aiutato, un vicino si è anche preoccupato. Ha bussato alla porta, domandando se fosse tutto apposto. Io gli ho risposto che sono cose che capitano e che non si doveva allarmare. Non mi ha creduto, è andato via con aria sospetta, neanche fosse un investigatore privato. Ci ripenso spesso, sarà difficile dimenticare l’espressione che aveva quel pomeriggio. Ma la cosa non mi preoccupa, sto per raggiungere il centro scommesse. È un locale nemmeno troppo grande, che si trova di fronte alla gelateria preferita di mia sorella. Ci vado ogni tanto, anche più di ogni tanto. Il titolare si chiama Mauro, è un ragazzo, ha da poco compiuto ventisei anni. Se ne sta sulle sue, non parla molto con la clientela. Si limita a fare qualche battuta, giusto per sdrammatizzare un po’. Si intrattiene per qualche minuto poi ritorna a sbrigare le sue faccende. Lo saluto dopo esser entrato. Indossa una felpa con delle immagini stilizzate. Dovrebbero essere degli animali, riesco a riconoscere un elefante.
«Ciao Leo, come va?», mi domanda dopo avermi riconosciuto.
«Tutto bene, te?», gli rispondo.
«Bene bene, ci giochiamo il solito oggi?».
«Certo».
Non ci sono molte persone, la maggior parte degli scommettitori ancora sta lavorando. Incrocio lo sguardo di Tiziano, uno di quelli “fissi” come li definisco io. Trascorre tutto il suo tempo al centro scommesse, esce soltanto per andare a fumare. Dovrebbe essere un idraulico, prossimo alla pensione. Sua moglie faceva la catechista quando io e mia sorella eravamo piccoli. Aveva una certa influenza su di noi, all’oratorio tutti le portavamo rispetto. In sua presenza nessuno parlava, ci limitavamo ad ascoltare e basta.
«Buonasera Tiziano», dico senza alzare troppo la voce.
«Buonasera».
«Su quale campionato ti sei buttato oggi?».
Lui ribatte, abbassando gli occhi: «Coppa brasiliana, si giocavano due partite niente male».
«L’altra volta il Giappone, oggi il Brasile, sei un uomo di mondo».
«Già».
Dopo aver scambiato due parole con Tiziano cerco una sedia su cui sedermi. Noto due signori che non ho mai vista prima, due “forestieri”, come mi piace chiamare quelli che vengono da un altro paese. Solitamente lo fanno per non correre il rischio di essere scoperti. Prima di andare a vivere con Vanessa, aveva assistito a una scena simile. Un figlio si era scagliato violentemente contro il padre, dicendogli che era un vigliacco. Lo aveva colto in flagrante, stava per afferrare la schedina che aveva appena giocato. Non è stata una bella immagine, ricordo che sono rimasto immobile per una decina di minuti. Non mi aspettavo che accadesse una cosa del genere ma non ci ho impiegato molto a riprendere le forze. C’erano i Mondiali di calcio, un’occasione troppo ghiotta per farsela sfuggire.
«Le quote le trovi sopra a quella mensola», mi avvisa Mauro.
«Ok, grazie».
Le prendo, sono una decina di fogli in tutto. Mi sento meglio, nonostante non abbia ancora preso posto. L’odore della carta mi fa stare bene, la superficie è liscia, appena uscita dalla stampante. Ordino meglio i fogli, alcuni non sono stati pinzati bene. Nel frattempo mi siedo su uno sgabello di legno, vicino alla postazione di Mauro. Ci sono dei monitor sopra alla mia testa, stanno trasmettendo i risultati di alcune partite. Poso i fogli sul tavolo, devo studiarli bene. Scorro con gli occhi le quote, per ogni squadra associo automaticamente il campionato. Più vado avanti, più il mal di testa diminuisce. Non ho preso nessun farmaco, sto solo leggendo delle tabelle stracolme di numeri e di lettere. Lentamente il dolore svanisce e lascia spazio al piacere, lo stesso piacere che provavo a scuola, dopo aver portato ai miei compagni di classe le quote. Le andavo a prendere a piedi, quasi sempre di sabato e prima che arrivasse la corriera. Mi svegliavo presto, mangiavo una merendina al volo e uscivo di casa senza preoccuparmi di dirlo al mio compagno di fermata, che viveva a qualche isolato da casa mia. Lo facevo per essere accettato e per inserirmi meglio all’interno della classe. I miei compagni sapevano di poter contare su di me, avrei saltato la lezione piuttosto che presentarmi lì a mani vuote. Anche io scommettevo con loro, utilizzavo dei foglietti di carta per annotarmi le partite. Li strappavo dal quaderno di matematica, la cosa non mi dispiaceva affatto. Dopo aver scritto tutto, mostravo l’elenco a quelli più popolari, cercando di convincerli a scommettere con me. Giocavamo uno, due euro a testa. Con i match importanti, invece, puntavamo fino a dieci euro. Una cifra insignificante se paragonata con quello che avrei speso dieci anni dopo.
«Non buttarti sul Sud America, ci ho perso cinquanta euro l’ultima volta», mi dice Tiziano che si è avvicinato al mio sgabello.
«Se non conosco il campionato non lo considero», rispondo in modo stizzito.
«Buon per te».
Riprendo ad analizzare le partite, le più affascinanti sono quelle europee. Ci sono due derby in Inghilterra, in Spagna c’è una lotta salvezza per non retrocedere alla trentesima giornata. L’entusiasmo sale dal basso, sono talmente su di giri che mi bagno le labbra con la lingua. È come se stessi assaporando la pasta e ceci di mia mamma; io amo quel piatto. Prendo un bloc-notes, ce ne sono parecchi in giro, sono sparsi per tutto il locale. La penna è leggera, il tappo è andato disperso. Inizio ad annotarmi qualche partita, dovrebbero essere una dozzina. Le numero in modo dettagliato, sono bravo, è impossibile che qualcosa mi sfugga. Intorno a me nessuno parla, c’è un silenzio rilassante. Tiziano e i due forestieri sono impegnati a seguire i pronostici sui monitor, hanno lo sguardo fisso sugli schermi. È la situazione perfetta per fare un buon lavoro con la schedina.
«Leo, stai attento che non cada quel contenitore», mi urla inaspettatamente Mauro.
Mi giro, non aveva fatto caso al raccoglitore di fogli che stavo per rovesciare per terra.
«Scusa, sono un deficiente», ribatto sorridendo.
«Tranquillo, non vorrei che succedesse un casino».
«Non accadrà».
Lo posiziono meglio, l’avvertimento di Mauro mi ha destabilizzato. Ritorno alla schedina, sono arrivato alla settima partita. Dopo averla segnata decido di fermarmi. Forse dodici match sono troppi, meglio andarci piano.
«Adesso c’è lo step più importante», penso ad alta voce.
Devo scegliere i risultati esatti, le opzioni sono poche. Non mi piacciono quelle giocate sofisticate che prediligono in molti, proprio non le sopporto. I gol segnati, i marcatori, a me interessa solamente il risultato. Lo trovo gratificante, ragionare su come possa concludersi una partita è il momento migliore della giornata. Non riesco a rinunciare a quei dieci minuti. Li aspetto con impazienza, mentre lavoro la testa va costantemente al centro scommesse, a quella routine consolidata che c’è sempre. Anche la camminata per raggiungerlo è motivo di soddisfazione, le gambe vanno a mille, mente e corpo sono perfettamente collegati. So che là dentro i dolori spariscono, diventano piccoli piccoli, quasi insignificanti. Mi serve avere quella sicurezza, contenuta in quelle quattro mura dipinte di bianco. Senza parlare della vincita, fare soldi è fondamentale.
«Secondo me dovresti giocare meno partite», mi dice Tiziano che ha smesso di seguire i pronostici.
«Già ne ha tagliate alcune, se continuo così non vinco nulla».
«Non sono d’accordo».
«Tu gioca il tuo, io il mio».
«Era solo un consiglio», replica lui che ha sbirciato tutte le mie partite.
«I consigli si possono anche non accettare».
«Cavolo, che poeta!».
Sono un po’ infastidito, Tiziano mi ronza intorno da quando sono entrato. Non è l’unico a credersi il Dio delle scommesse. Al paese ce ne sono molti, soprattutto ragazzi. Si esaltano per aver vinto cento euro, lo pubblicano anche sui social. Non hanno tatto, non capiscono che il segreto sta nel perseverare. Si rilassano dopo aver vinto, credono di essere invincibili. Osano senza riflettere e perdono, perdono per dieci, quindici volte consecutive. Si lamentano, inventando la scusa che la buona sorte non è più dalla loro parte. Non resta che mollare la presa, che dire di essere stati sfortunati. Ci sono passato, non va assolutamente così. Bisogna insistere, non è una questione di fortuna o sfortuna. È una lezione che ho imparato e che sarà complicato dimenticare. Ma non ho intenzione di farlo. Mi serve per staccare, mi serve per stare sereno e per prendermi una pausa da Vanessa.
«C’è un poeta qua dentro?».
Mi volto, è appena entrato Maicol. Ha ascoltato la battuta di Tiziano e ci ha scherzato su. Va ancora all’università, ne ha cambiate tre negli ultimi cinque anni. Ora sembra aver trovato la strada giusta, l’ho visto in forma, di sicuro è una bella notizia. Lui fa parte della categoria degli “anomali”. Ci sono periodi in cui non si presenta, altri, invece, in cui si trasferisce letteralmente al centro scommesse. Suo padre lavora nella mia stessa fabbrica, gli mancano tre anni per andare in pensione. Non parla di suo figlio con me, ho l’impressione che mi eviti. È probabile che ce l’abbia con tutti quelli che scommettono. Una mattina avevo parcheggiato la macchina vicino alla sua, lui non era sceso, stava fumando con il finestrino abbassato. Pensavo che stesse litigando con qualcuno, non mi ero accorto che stesse parlando da solo. Ce l’aveva con Maicol, erano scomparse due banconote da cinquanta euro a casa. L’avevo beccato durante una sfuriata, una delle tante.
«Nessun poeta, stai tranquillo», rispondo, «ciao Maicol, come va?».
«Bene, te Leo?».
«Un po’ indeciso ma per il resto tutto apposto».
«Vuoi una mano?».
«No, risolvo da solo».
«Come desideri», mi risponde dopo essersi seduto di fianco al mio sgabello.
Per un attimo lo fisso, lui ha questa abitudine di appoggiare il portafoglio sopra alle quote. Non ne conosco il motivo, sarebbe il caso di domandarglielo. Non credo che voglia dimostrare qualcosa, non è proprio il tipo. Nemmeno io lo farei, l’ultima volta che ho lasciato in bella vista il portafoglio Vanessa lo ha preso. Era sopra al comodino in camera da letto, lei lo ha afferrato con prepotenza. Io mi trovavo in bagno, il rumore del phon con cui mi stavo asciugando i capelli aveva coperto la sua voce. Dopo averlo spento, sono uscito dalla stanza. L’ho incontrata con un oggetto in mano, lo stringeva, sembrava che volesse distruggerlo. «È sempre vuoto questo cazzo di portafoglio», ha urlato, «cosa dovrei fare? Devo metterci un lucchetto? Te lo devo sequestrare?». Io non ho abbozzato nessuna reazione, avevo ancora l’accappatoio addosso. Ho cercato di tranquillizzarla, inventando una scusa. I soldi non c’erano perché avevo pagato il bollo dell’auto, una giustificazione pessima, chiunque se la sarebbe cavata meglio. Non potevo dirle che avevo giocato tre schedine sulla Champions League, due da solo e una con Maicol. Mi aveva convinto a puntare molti soldi su una partita facile che, secondo le sue previsioni, sarebbe finita 5 a 0. Io non ho tentennato, ho accettato subito. Il suo volto era sicuro, determinato, una garanzia. Non avrei mai immaginato che quella sera si sarebbe scatenato il finimondo. Vanessa aveva gli occhi lucidi, somigliavano a quelli di mia madre quando mi toglieva di nascosto le monete dallo zaino. Le tenevo nella tasca laterale, tra la colla e l’evidenziatore giallo. Mamma conosceva i miei nascondigli, era impossibile ingannarla. Se si rendeva conto che stavo esagerando con le quote, si attivava all’istante. Io non lo sopportavo, specialmente se avevo preso accordi con altre persone. Litigavamo spesso, era molto critica nei miei confronti. Aveva capito che più di un passatempo quella per le scommesse era diventata una fissazione per me.
«Perché stai guardando il mio portafoglio?», mi chiede Maicol, svegliandomi dal sogno ad occhi aperti che stavo facendo.
«Per nessun motivo».
«Sei stanco?».
«No».
«Davi l’impressione di esserti appena addormentato».
«È difficile dormire con Tiziano che ti viene a rompere le palle».
Lui ride, andando indietro con la schiena. Capita di prendersi in giro a vicenda, anzi sarebbe proprio strano se non succedesse. Il bersaglio preferito è Tiziano, con lui la battuta è assicurata. Sta sempre al gioco, si diverte. Un giorno era particolarmente ispirato. Si è avvicinato di soppiatto e mi ha confessato che entrare nel centro scommesse era come ritornare adolescente. «Parlare con voi mi piace, sono stato giovane anch’io, mi mancava esserlo», ha ammesso senza troppi fronzoli. Per carità, non è la persona più educata al mondo, a volte si comporta in modo inappropriato ma in quell’occasione era tremendamente sincero. Sentiva che c’era qualcosa che accomunava tutti, su cui confrontarsi, su cui scherzare. Poteva e può essere definito come un sentimento condiviso, che ti prende e che non ti lascia andare.
«Sei simpatico Leo, non sai quanto», ribatte lui dopo la mia frecciatina.
«Scherzo ovviamente, ti vogliamo troppo bene», gli dico per rassicurarlo.
«Onorato».
Io e Maicol ci tiriamo un’occhiata, è ora di metterci sotto, dobbiamo finirla con le chiacchere. Riprendo le partite, ho già in mente di inserire dei risultati secchi. Nessuna doppia possibilità, o la squadra vince o la squadra perde o la squadra pareggia. Non mi piace improvvisare, devo studiare ogni dettaglio. Controllo con il cellulare se ci sono dei giocatori infortunati, se c’è stato qualche cambio di allenatore all’ultimo secondo. È un processo delicato ma allo stesso tempo emozionante. Sembro uno di quei ricercatori che si vedono in televisione, con i loro camici e le loro provette da analizzare. Noto che una squadra inglese ha perso tre giocatori, sarebbe consigliabile darla per sfavorita. Applico lo stesso ragionamento a tutte e sette le partite. I miei occhi scattano velocemente, sono un felino, appena ho la soluzione la annoto subito. Gioco due pareggi, la X mi viene un po’ male, la rimarco con la penna per non confondere Mauro. Dopodiché, vado con le vittorie in trasferta, tre per la precisione. Rimangono le vittorie in casa, sono semplici, è scontato che vincano le squadre più forti del campionato spagnolo. Ho finito. Per cinque minuti mi sono estraniato dalla realtà talmente ero assorto nelle quote e nelle notizie. È stato bello, ora però meglio controllare che non ci siano stati errori. A una a una ispeziono ogni riga. Tocco il foglietto del bloc-notes, è stropicciato, non stato clemente con lui. La foga con cui ho usato la penna ha rovinato la carta. Non sono in grado di frenare questo impulso, non ho motivo di farlo. Cancellarlo porterebbe il caos nella mia vita, finirei col perdere quel punto di riferimento che ho faticosamente portato avanti. I miei genitori non lo capiscono, Vanessa non lo capisce. Quando vincerò e li farò ricchi, si ricrederanno e mi diranno che avevo ragione. Cambieranno opinione sulla mia passione, su quella cosa che mio padre ha definito “una tossicodipendenza mascherata”. Ci ho riflettuto, ho avuto anche dei ripensamenti. Durante il primo anno di lavoro, nei primi mesi di frequentazione con Vanessa, ho tentato di riconsiderare alcuni aspetti della mia ossessione per le scommesse. I pensieri che facevo erano contrastanti, un’accozzaglia di idee che non avevano nulla di sensato. Avevo addirittura pensato di far scommettere qualcun altro al posto mio, per non dare nell’occhio. Ero confuso, se avessi continuato a rimuginare sarei andato direttamente in banca a chiedere un prestito. Aveva programmato anche quello, ero sul baratro. Da una parte volevo smettere per loro, soprattutto per Vanessa. Dall’altra, invece, desideravo soltanto tornare in quel centro scommesse. Alla fine ho ceduto, non ce l’ho fatta a resistere. Ero certo che se fossi andato lì con i soldi contati la situazione si sarebbe risolta da sola. Un piano decisamente migliore rispetto a quelli che avevo pianificato prima ma comunque inutile. È durato la miseria di due settimane.
«Vedo che hai finito», afferma Maicol, dopo essersi sporto verso di me.
«Già, speriamo bene».
«La speranza non c’entra nulla, uno come te dovrebbe saperlo».
«Lo so ma mi piace dirlo».
«Ti piace dirlo? Non l’avevo notato», scherza lui, «quanto ti giochi?».
«Sono abbastanza sicuro delle mie scelte».
«Quindi?».
«Cinquanta».
«Puntata bassa».
Rispondo prontamente: «Bassa ma efficace».
La frase di Maicol mi ha leggermente scosso, lui mi provoca sempre. È assurdo che la predica sui soldi venga da un ragazzo che li ruba ai suoi genitori.
«Sarà efficace ma bisogna osare», prosegue lui nel suo attacco.
«Oggi non rischio, non fomentarmi ancora».
«Me ne occuperò io allora».
«E chi te lo impedisce».
Mi alzo, devo raggiungere la postazione del titolare. Strappo il foglio sui cui mi sono segnato le partite dal bloc-notes. Lo consegno a Mauro che comincia a inserire i risultati. Seleziona dei codici sul suo computer, è agile, ha una buona manualità.
«La scommessa?», mi chiede.
«Cinquanta euro».
«Ok».
Non ci vuole molto tempo per stampare la schedina, l’ennesima schedina della mia vita. La afferro, verifico che sia tutto apposto. La vincita potenziale è alta, la assaporo, come se stessi annusando un tulipano. La mente inizia a viaggiare, con questi soldi potrei permettermi qualcosa di lussuoso. Da adolescente sognavo di andare a Corfù o di comprarmi un cellulare nuovo con i soldi della vincita. Adesso mi servono per altro, ho ambizioni più importanti, o forse voglio soltanto convincere me stesso.
«Non cambi mai eh?», bisbiglia Tiziano, interrompendo il mio momento di riflessione.
«Non cambio mai?».
«Sempre con questo cazzo di pallone».
«Lo sai, io vivo per il calcio»
«Vivi per il calcio o per le scommesse?
«Scusami?».
«Attento a non confonderli».
«Hai bevuto?».
«Ti sto prendendo in giro, fai spazio che è il mio turno».
Mi sposto, lasciando passare Tiziano. Ha parecchi fogli in mano, li tiene con la mano sinistra. È superstizioso, tutti qua dentro lo siamo. Maicol è solito strofinare i soldi contro i pantaloni prima di giocarseli. Io, invece, mi limito a toccarli in modo strano e a fare qualche scongiuro. Un tizio una volta li baciò davanti a tutti, gridando che si sarebbero triplicati. Credo che non sia successo, non ho rivisto più la sua faccia in giro.
«Te ne vai?», mi domanda Mauro che ha appena finito di stampare la prima schedina di Tiziano.
«Sì, torno a casa».
«Ci vediamo allora».
«Alla prossima».
Do la buonasera a tutti, compresi i due forestieri che sono ancora all’interno del locale. Mi giro, la porta d’uscita è a pochi passi. Mi arriva un messaggio, è Vanessa. Mi domanda se ho comprato la prolunga per la televisione. Mi fermo, l’ho dimenticato. Nota che non sto rispondendo, decide di incalzarmi. «Non è che sei al centro scommesse?», mi scrive. Io ho ancora la schedina in mano, non ho intenzione di mentirle né di farla arrabbiare. «Ci vado subito», le rispondo, inserendo anche una emoticon. Attendo una decina di secondi, entrano un paio di persone. Mi muovo per farle passare.
«Cos’è? Non sei riuscito ad aprire?», grida Mauro che mi ha visto tentennare.
«Devo sbrigare una cosa».
«Ok».
Alzo gli occhi verso l’alto, non lo so nemmeno io cosa stia aspettando. Potevo essere già uscito da un pezzo, sarei persino arrivato dal ferramenta. Sono bloccato, il motivo è semplice. Le parole di Maicol si agitano ancora nella mia testa. Probabilmente aveva ragione, non ho puntato chissà quale cifra. Anche le partite non sono tante. Sette è un buon numero ma non è sufficiente. Ho visto schedine lunghe come pergamene, se riesci a vincere una di quelle ti sistemi per tutta la vita. L’indecisione è dura da combattere, ho due vie di fronte a me: ritornare al mio sgabello o sbrigare la commissione dal ferramenta. Vanessa non risponde, magari sono riuscito a convincerla. Dovrebbe rincasare a breve, l’autobus delle diciotto e trenta non ritarda mai. Se torno all’appartamento a mani vuote potrei rovinare la serata ad entrambi. Mentre penso a tutti gli scenari possibili, Maicol mi passa dietro.
«Quanto è brutta l’incertezza», dice ad alta voce, tentando di catturare la mia attenzione.
«Dove vai?», gli rispondo.
«Devo chiamare mia madre».
«Ok».
«Dopo ti aspetto al tavolo».
«Che?».
E lui: «Tanto so che farai il bis».
La provocazione di Maicol non migliora la situazione già precaria. In sottofondo si avvertono i rumori più disparati. La carta che si muove, le imprecazioni, il computer di Mauro che stampa le schedine. Sono suoni familiari, piacevoli, fanno parte del mio mondo. La tentazione è grande, le gambe non vanno. Non ho voglia di uscire, la suola delle scarpe si è appicciata al pavimento. Maicol rientra, la chiamata con sua madre è stata rapida. Non mi dice nulla, nemmeno mi guarda in faccia. Dovrei seguire la sua scia e ripresentarmi al tavolo. Mentre osservo il suo andamento deciso, percepisco una vibrazione, all’altezza della coscia. È il mio cellulare, Vanessa ha risposto. Guardo il messaggio che le avevo inviato precedentemente e poi la sua reazione. «Fai un po’ come cazzo ti pare», ha scritto, «quando finiremo sul lastrico sarà un problema tuo». Le sue affermazioni mi colpiscono limitatamente. Il “finire sul lastrico” è una frase che utilizza spesso. Non le ho mai dato torto, quello che dice è vero. I soldi si esauriscono in fretta, è un dato di fatto. Ma si possono anche guadagnare allo stesso modo, basta crederci. Non sono in grado di rinunciare alle scommesse, ho fallito quando ho cercato di privarmene. L’affetto dei miei, l’amore che provo per Vanessa, posso gestire tutto senza dire addio alle schedine. Blocco il cellulare, la prolunga la andrò a prendere verso le diciannove, il negozio è ancora aperto a quell’ora. Non rispondo a Vanessa, se lo facessi capirebbe che sono al centro scommesse. Mi presenterò a casa con quel cavo elettrico che ci serve per la TV. Mi accuserà di essere debole dopo aver notato che ho fatto un ritardo mostruoso. Sono fragile, non ho rispetto per i sentimenti degli altri e per le loro preoccupazioni. Infilo il telefono in tasca, l’orologio segna le diciotto e trentacinque. Ho tempo per un’altra schedina. Vedo Maicol seduto, Tiziano è ancora alla postazione di Mauro. Riprendo posto, Vanessa mi ha inviato un altro messaggio. Chiudo gli occhi, li riapro. Potrei giocare venti, trenta euro, oppure sessanta.
«Maicol», dico senza alzare la voce, «che ne dici del campionato francese?».
«Ci stavo pensando proprio ora».
«Dieci partite?».
«Andata».
Scritto da Federico Battaglia.