Poker al “Tavolo 69”
— Prologo —
Ero finita in un caos difficile da spiegare. Forse la logica conseguenza della mia… sì, della mia cosa? Non so. Ho come l’impressione che tutto si sia mosso di energia propria, come conseguenza della conseguenza della conseguenza… e mi ci ero ritrovata dentro fino al collo – e non avevo visto altra via d’uscita che quella di “cooperare”.
Di cosa parlo? Di una partita di poker al club “Tavolo 69” (che già il nome era tutto un programma, ma io, candida, non l’avevo nemmeno notato). Una partita che aveva cambiato per sempre il mio mondo.
Come c’ero finita? Questo è più facile da spiegare. Un giro con le amiche per festeggiare il mio vicino matrimonio. L’ultima notte di nubilato.
Amiche? Beh, sì, almeno così credevo, tutta fiduciosa e pimpante com’ero. Solo che una di queste “amiche” – me ne resi conto un po’ tardino – era la classica serpe che avevo allevato nel mio seno. Solo più tardi scoprii che era innamorata del mio fidanzato, da sempre, e per di più era decisamente una sballata. Anche questa una conseguenza?
Ma forse è meglio se inizio dal vero inizio.
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La brutta notizia: a me piace giocare, sfidare la sorte, cercare la fortuna e godermela tutta quando mi bacia in fronte. Purtroppo questo non succede molto spesso, ma finora non era stato un vero problema. Non sono ricca, ma vengo da una famiglia cosiddetta benestante e posso permettermi di buttar via un po’ di soldi. O quasi, ormai del mio capitale non rimane molto. Ma una puntatina al casinò non riesco a evitarla: è una specie di febbre che mi assale di quando in quando e se non lo faccio non mi lascia vivere in pace.
La buona notizia: da quando ho conosciuto Franco la mia vita è cambiata. Riesco a pensare meno al tavolo del casinò e sul lavoro la mia ritrovata concentrazione mi ha portato a ottimi risultati. Franco sa della mia passione per il gioco, ma mi conosce solo nella mia versione migliore. Non mi ha mai visto sudata e fremente mentre sfoglio le carte da poker o aspetto il numero fatato alla roulette. Quando sono con lui non ho bisogno del gioco. O quasi.
La notizia più bella: grazie a Franco sono mesi che non frequento più il casinò. Non che non ci pensi, questo no, però in qualche modo è diventato un problema di secondo piano. Ora la mia passione è preparare il nostro matrimonio, progettare la nostra vita insieme, il nostro futuro. Non so, forse anche perché in fondo anche questo è una specie di gioco d’azzardo.
Spesso mi sono chiesta perché mi piace tanto giocare. Non riesco nemmeno a capire come ci sono arrivata. So solo che un giorno un mio amico mi portò con sé a una festa in campagna. Una festa di compleanno, nulla di particolare e con gente che conoscevo, almeno di vista.
Ballammo e ci divertimmo nel solito modo naturale, così come fanno tutti i giovani. Forse bevemmo anche un po’ troppo, non posso negarlo, ma in fondo non successe nulla di male. Nemmeno un piccolo screzio. Assolutamente nulla.
Poi, quando ormai eravamo rimasti in pochi, qualcuno propose un giro di poker. Un gioco che conoscevo appena, ma che mi era sempre piaciuto.
Giocammo fino all’alba, le puntate erano minime, quasi ridicole. Eppure… iniziai a perdere, poi ebbi un giro fortunato e rivinsi tutto quello che avevo perso. Un altro giro fortunato e vinsi ancora… e ancora…
Mi divertii molto, e scoprii di godere in particolare della tensione del gioco. Era una sensazione vera, intima.
Lo stesso amico mi accompagnò una sera al casinò. Ovviamente conoscevo la roulette, tutti la conoscono. Ma quando capii anche come funzionava veramente quel gioco, la cosa mi appassionò molto. Anche lì persi qualche soldo, ma giocavo basso e quindi non fu nulla di grave.
Il problema iniziò piuttosto quando iniziai a vincere. E vinsi il doppio di quanto avevo perso all’inizio. Quella biglia lucida mi faceva tremare, era come avere una percezione magica del futuro.
Senza nemmeno accorgermene, iniziai ad andare al casinò tutti i sabati, qualche volta perfino nel bel mezzo della settimana, dopo il lavoro. E, a conti fatti, le perdite cominciarono a farsi consistenti. Ogni tanto un colpo di fortuna ravvivava in miei sensi, ma in genere uscivo dal casinò piuttosto ammosciata. Eppure ci tornavo.
La roulette non mi bastava più, il tavolo del poker era allettante: lì non si trattava solo di fortuna. Credevo di saper giocare bene. Poi persi in una sola sera tutto lo stipendio di un mese.
Ma la cosa non mi fermò. La fortuna gira, mi dissi, la prossima volta sarebbe stata la mia volta. Ne ero sicura.
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Poi conobbi Franco.
Un nuovo collega di lavoro. Gentile, carino, premuroso. Un vero gentiluomo. Forse di idee un po’ all’antica, ma non si può avere tutto. E comunque me ne innamorai all’istante. E lui di me. Questa era la vera fortuna. Me ne resi conto quando, nei mesi successivi, mi accorsi di pensare molto meno al casinò, al gioco.
Decisi di essere al massimo sincera con Franco. Molti sapevano della mia passione per il gioco, e naturalmente tutte le mie amiche, quindi una volta o l’altra anche lui ne sarebbe venuto a conoscenza. Meglio quindi se ero io a dirglielo.
Afferrai il toro per le corna e gli raccontai tutto. Gli promisi di stare attenta, di cercare di farla finita per sempre con quella storia poco edificante. Fui molto convincente, credo. E lui si comportò come un vero amico, mi confortò e mi disse che ero forte, che aveva fiducia in me.
Ma era chiaro che dovevo scegliere tra lui e il gioco. E io scelsi Franco.
Dopo la mia confessione cercai una formula praticabile per uscire dal mio dilemma. Mi imposi di andare al casinò solo una volta al mese per i primi due mesi, poi solo una volta ogni due mesi e poi mai più.
Volevo arrivare al matrimonio con Franco bianca come la neve, pulita e pronta per una vita felice. Volevo dimostrargli – e soprattutto volevo dimostrarlo a me stessa – che ero capace di mantenere una promessa, che sapevo distinguere tra il bene e il male, che avevo rispetto per il suo amore e per il mio.
E ci riuscii. Con notti insonni, con incubi orrendi di biglie che ruotavano e di carte che mi aggredivano. Ma ci riuscii. Ormai la data del nostro matrimonio si avvicinava e io non ero mai più andata nel casinò da diversi mesi.
Ero pulita, ero pronta! Ce l’avevo fatta.
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Ci sono tradizioni molto stupide, ma che nonostante tutto vengono rispettate. Una di queste è la festa d’addio al celibato o, nel mio caso, al nubilato. In qualche modo la mia ultima notte da nubile mi sembrava di buon auspicio, quindi mi dichiarai d’accordo quando la mia futura testimone, la mia migliore amica, me la propose.
Mi promise che saremmo state solo in poche ragazze e che ci saremmo divertite.
Ci saremmo vestite come delle ninfette e poi avremmo fatto il giro dei locali, bevendo spumante e cantando canzoni un po’ sconce. Avremmo riso a crepapelle e dato fastidio ai ragazzi che avremmo incontrato – in fondo perché no, il tutto era forse un po’ volgare, ma del tutto innocuo.
E comunque Franco ne sarebbe stato contento: conservatore com’era avrebbe sicuramente avuto rispetto per le tradizioni. E poi anche lui avrebbe festeggiato il suo addio al celibato, quindi perché non avrei dovuto farlo anch’io?
Una settimana prima del matrimonio, un sabato sera, ci ritrovammo nella piccola birreria del mio quartiere. Come era giusto fare in tali occasioni bevemmo, cantammo e poi uscimmo per trovare un locale notturno, dato che la birreria stava ormai chiudendo. Eravamo solo sei ragazze, ma facemmo chiasso per cento. Che la proposta di andare al club “Tavolo 69” l’avesse fatta la mia pseudo-amica lo ricordai solo dopo il fattaccio, ma ormai era troppo tardi. Eravamo tutte piuttosto su di giri, diciamo pure un po’ brille, quindi non facemmo troppe domande e andammo dritte verso il nostro destino.
Il locale, un club privato, era dall’altra parte della città, ma con un buon maxi-taxi ci arrivammo, a quell’ora della notte, in pochi minuti. Stranamente, ora ricordo perfino il sorrisetto ironico del tassista, quando ci fece scendere davanti al club.
Ci fecero entrare senza problemi. Il guardaporta in smoking ci fece solo notare in modo molto affabile che eravamo già alticce e che avremmo fatto meglio a non bere troppo – non desideravano donne ubriache nel loro locale. Promettemmo di non ubriacarci ed entrammo, un po’ intimorite dal tono blasonato del posto.
Il club era molto elegante e ci rendemmo subito conto che il pubblico era composto da persone piuttosto ben fornite. Uomini in smoking e donne in abito da sera. Ci sentimmo un po’ a disagio, dato che indossavamo vestitini da ninfette, di per sé anche carini, ma certo non da serata nobile. Ma poi ci venne incontro una ragazza in normalissimi jeans da 1000 euro e ci fece accomodare in una parte del salone, dietro la pista da ballo, dove tutti erano vestiti più o meno come noi, senza esorbitanti pretese di eleganza.
Ok, ci dicemmo, quindi il club era diviso tra ricchi e meno ricchi, e noi eravamo state chiaramente individuate come facenti parte del secondo gruppo. Bah, poco male, tanto volevamo in ogni caso solo mangiare qualcosina, bere un ultimo sorso e chiacchierare un pochino.
Così ci sedemmo a un tavolo libero e subito un cameriere ci portò il menù e la lista delle bevande. Rimanemmo positivamente sorprese: avevamo creduto di dover lasciare lì anche la nostra ultima goccia di sangue, invece i prezzi erano quasi normali, forse un po’ alti, ma per un club privato assolutamente abbordabili.
Ordinammo uno spuntino e un po’ di spumante e riguadagnammo la nostra aria sbarazzina e festosa. Nel giro dell’ora successiva quello che avrebbe dovuto essere il nostro ultimo sorso della serata diventò un sorso piuttosto consistente – e dopo ancora una mezz’ora eravamo un tantino troppo brille per poterci rendere conto che qualcuno, angelo o diavolo, continuava a riempirci i bicchieri senza che lo chiedessimo.
Nemmeno ci meravigliammo molto quando un signore molto distinto ci venne a chiedere se avessimo intenzione di partecipare anche al gioco del club, che stava per iniziare. Gioco? Chiedemmo in coro. Sì, chiaro, per quello il locale si chiamava “Tavolo 69”, perché lì si giocava. A quanto pare era tutto legale, il club aveva la relativa licenza e all’ora stabilita sarebbero apparsi i tavoli da gioco e la roulette. Ma ovviamente, ci assicurò il distinto signore, se non volevamo, potevamo anche solo guardare – in ogni caso delle belle signorine come noi sarebbero state ben accette…
Insomma, alla fine del suo soliloquio, decidemmo di partecipare al gioco. Solo un paio di mani, poi via nel lettuccio caldo a smaltire i fumi dell’alcool. Mi sentivo un po’ colpevole, anzi molto. Stavo rompendo la mia promessa di non giocare mai più, ma era la mia ultima notte da nubile… e poi non ero andata io al casinò, era questo che era venuto da me. Insomma un chiarissimo atto del destino… e in fondo, sì, sarebbe stato come sigillare per sempre il mio solenne giuramento: una specie di ultima notte da giocatrice.
Con il senno del poi, mi rendo conto che non fui io a dirmi quelle frasi, ma piuttosto mi furono suggerite dalla mia pseudo-amica, che ovviamente ben sapeva della mia passione per il gioco. Ma devo anche ammettere che io, ormai troppo piena di alcool, alla sola idea di poter di nuovo giocare, avevo iniziato a tremare… Per farla breve, accettai quelle stupide scuse come fossero una santa verità.
Alle tre di quella notte fatale eravamo ancora lì e sudavamo freddo.
Al centro del salone, sulla pista da ballo circolare, era stata montata rapidamente una roulette regolamentare.
Si giocava con dei gettoni “virtuali”, acquistati in contanti oppure convalidati attraverso la dichiarazione del numero del giroconto bancario o della carta di credito. Le mie amiche avevano perso un qualche centinaio di euro e premevano per andare a casa. Io, invece (e ora sono più che sicura che fu opera della mia personale diavoletta), avevo sperperato una somma orribile. Ero rovinata. Avevo persino utilizzato tutto il credito che mi metteva a disposizione la mia banca. Praticamente ero sul lastrico.
E non avevo la più pallida idea di come avrei potuto dirlo al mio futuro marito.
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Fu a quel punto che il signore distinto che mi aveva attirato in quella trappola mi fece firmare una dichiarazione – che lui chiamava impegnativa di sicurezza – con la quale confermavo la somma pazzesca che dovevo al club. Cos’altro avrei potuto fare? Firmai.
Poi mi disse che in quella sala ormai ero fuori gioco e le mie puntate non sarebbero più state accettate. Poi aggiunse che, se proprio non volevo andar via, avrei anche potuto cambiare sala.
Cambiare sala? Credevo di non aver capito bene: se ormai non avevo più soldi, che senso aveva “cambiare sala”?
Il signore distinto mi prese da parte e mi spiegò che ora ci trovavamo nella sala 6, ma se avessi voluto sarei potuta andare nella sala 9. Lì, si giocava in modo diverso (e dal tono capii che non si trattava di un modo molto legale). Nella sala 9 si capovolgevano le puntate e probabilmente, con un po’ di fortuna e di buona volontà, avrei potuto riottenere gran parte di quello che avevo perso fino a quel momento.
Per una semi ubriaca fradicia come ero in quel momento sembrava una cosa allettante. Che gioco si gioca nella sala 9? Chiesi un po’ preoccupata, e la risposta di certo non mi rassicurò (sono una maledetta cretina ma non completamente rincitrullita!). Insomma, nella sala 9 si giocava a poker e si partiva dalla somma che avevo perso. Potevo puntare quanto volevo, poi alla fine del giro si faceva il punto della situazione: se avevo vinto, la somma puntata sarebbe stata decurtata dal mio debito; in caso contrario avrei dovuto effettuare un pagamento in natura e – questo era l’importante – anche in quel caso la somma sarebbe stata tolta dal mio debito. Quindi in ogni caso il mio debito sarebbe diminuito.
In pratica, sottolineò il mio angelo custode, basta essere flessibili e in ogni caso il debito si riduce o addirittura si annulla.
Ovviamente avrei potuto interrompere il gioco in ogni momento, ma in quel caso avrei dovuto pagare il mio debito completamente e nel giro di una settimana.
Avrei volentieri cancellato il suo viscido sorriso a colpi di bastone. Ma mi resi conto amaramente che ero io la colpevole di quella situazione, non aveva senso prendersela con lui e piangere sul latte versato.
Non mi facevo illusioni sul pagamento in natura, solo un completo idiota non avrebbe capito di cosa si trattasse. Ma cosa dovevo fare? Che scelta avevo in realtà? La somma che avevo perso era talmente alta che non avrei mai potuto restituirla nel giro di una settimana e inoltre il mio fidanzato mi avrebbe piantata, il mio matrimonio sarebbe finito prima ancora di iniziare e io sarei stata rovinata per sempre. Chiedere aiuto a mio padre sarebbe stato assolutamente inutile: un bigotto come lui mi avrebbe solo sorriso e detto che questa era la volontà del Signore…
Ero immersa nel casino fino al collo – un passo falso e sarei affogata.
Chiesi un minuto per pensare e andai a chiedere consiglio alle mie amiche. Cercai di far sembrare la proposta il più possibile “seria”, ma non credo che ci riuscii veramente. Le mie vere amiche fecero una faccia lunga e abbassarono gli occhi – anche loro, improvvisamente sobrie, non sapevano che dire. La mia pseudo-amica, invece, puntò i suoi occhi nei miei e sorrise melliflua: e che aspetti, mi sembra una proposta eccezionale, anzi, direi che così chiudi la tua giornata di addio al nubilato proprio come si deve. Mi fece l’occhiolino e sghignazzò un po’ sguaiata (sono sicura che era molto meno sbronza di quello che voleva far credere).
Oddio, non è che io sia la più santa delle ragazze, ma quella storia, unita alla sbronza che avevo, mi sconvolse lo stomaco. Sotto forti conati di vomito mi precipitai in bagno e vomitai anche l’anima. Quando tornai nella sala, le mie amiche se ne erano andate – evidentemente erano sicure che avrei accettato il tavolo della sala 9. Solo la stronzetta era lì ad aspettarmi. Mi prese per un braccio e mi sussurrò nell’orecchio che sarebbe venuta anche lei, così se proprio avessi voluto smettere mi avrebbe aiutata.
Era una tentazione troppo forte, avrei lasciato quel locale senza debiti, senza problemi e… beh, il mio futuro marito mica doveva sapere sempre tutto su di me, soprattutto di quello che avevo fatto prima di sposarlo e ancora meno di quello che avevo fatto nella mia ultima notte di nubilato… (questi concetti potete immaginare chi me li mise in testa). E così mandai al diavolo tutte le buone e brave amiche che a quanto pare mi avevano già condannata e accettai la proposta.
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Quando uscii dal club era ormai l’alba. Un sole tiepido riscaldava a malapena la pelle, ma l’aria era pulita. Non come dentro quella saletta del tavolo 9. Dove tutti fumavano e avevano il respiro accaldato.
Prima di uscire mi ero data una ripulita nel bagno del locale, lavata ben bene la faccia e fatto i gargarismi per due minuti. Mi ero rifatta un po’ il trucco e riuscivo a camminare dritta sulle mie scarpe con il tacco a spillo.
Il mio vestito era perfetto, appena un po’ stropicciato dalla serata precedente, ma poi l’avevo tolto e quindi era ancora piuttosto a posto.
I miei indumenti intimi non so dove fossero rimasti, non li avevo più trovati e comunque non li avrei rimessi. Li avrei bruciati. Come bruciai anche il vestito che non si era stropicciato molto. Ma aveva visto troppo.
Il corpo che avevo non era il mio. Non lo sentivo più come parte di me stessa. Era una carcassa usata, forse presa in prestito, non so. Non era il mio corpo, ma allora perché mi faceva male? E continuò a farmi male anche negli incubi che mi perseguitarono senza sosta e che iniziarono, stranamente, solo dopo che il mio fidanzato mi piantò (ma credevi veramente che io avrei sposato una simile sgualdrina? Ma vai via, mi fai schifo…).
Non so come arrivai a casa. So solo che mi ritrovai davanti al portoncino del mio appartamento, che entrai, mi distesi sul letto e rimasi fino a sera con gli occhi aperti a fissare il soffitto. Con l’impegnativa di sicurezza del club, che ora riportava il timbro “annullato”, stretta tra le mani.
Sentii la segreteria telefonica rispondere al mio fidanzato che mi raccomandò di telefonargli appena possibile.
Poi sentii due delle mie amiche che chiedevano come stessi… e se la serata fosse poi finita bene.
Ma la segreteria telefonica non sapeva cosa rispondere, quindi non rispose.
Era domenica. Nessuno mi aspettava al lavoro. Mi addormentai e quando mi risvegliai era il giorno dopo, presto. Feci una doccia, mi sentivo stranamente leggera.
Decisi che non era successo nulla. Decisi che la notte tra sabato e domenica non c’era mai stata. Decisi che avrei telefonato alle amiche e avrei detto che era stata tutta una messa in scena, uno scherzo, una presa in giro. Tutto si era appianato con tante risate.
Poi piansi per due ore, ma feci ancora in tempo a lavarmi la faccia, a rifarmi il trucco per la seconda volta e ad arrivare in ufficio (quasi) in orario.
La giornata passò senza particolari utili per la cronaca. Telefonai al mio fidanzato e gli dissi che avevo passato la domenica a letto per smaltire la sbornia – colpa sua, perché la sbornia era la conseguenza del fatto che ci saremmo sposati, della mia ultima notte da nubile…
Alle mie amiche raccontai la storiella della messa in scena. Non ci credettero, ma fecero finta di sì. Meglio dimenticare queste cose, tanto la vita va avanti lo stesso. Ecco, questa mi sembrava la giusta filosofia di sopravvivenza.
Poi, martedì mattina, il mondo crollò in una voragine senza fondo.
Fui svegliata da una telefonata insistente, che non voleva sentir ragione del fatto che stavo dormendo, che erano le sei del mattino e nessun buon cristiano telefona a quell’ora inumana.
Sentii solo una voce distorta che mi diceva di aprire la mail che mi era arrivata. Poi solo tuuuutuuuu.
Aprii la mail – un mittente sconosciuto e ovviamente falso – e seguii il link che c’era sopra. Mi dissi che se ti telefonano a quell’ora non può essere solo un qualche cretino che ti spedisce un virus. E avevo ragione.
Il link mi portò su un video. Il video mi riportò brutalmente nella sala 9. C’era tutto quello che avevo fatto, che mi avevano fatto, con me sempre in primo piano, poco da vedere degli altri – tagliato e montato così bene da far sembrare il tutto come una perfetta cooperazione tra persone consenzienti. Beh, in un certo senso lo ero stata veramente – lo so, avrei potuto rifiutare. Ma avevo avuto veramente una scelta? Si ha veramente sempre una scelta?
Guardai e riguardai le scene più spinte… ma il clou del video era sicuramente quella iniziale, dove io, in ginocchio davanti agli uomini del poker, ad occhi bassi dichiaravo di essere a loro disposizione e di voler soddisfare tutti i loro desideri. Mi avevano fatto recitare quella parte umiliante, mi avevano detto, per loro stessi, per il loro piacere perverso – ora sapevo che invece lo scopo era ben altro. Era la scena della mia condanna.
Mi sedetti sul pavimento, davanti al computer, e guardai nel vuoto, gli occhi sbarrati, incapace di piangere.
È questo il sapore della disperazione?
— Epilogo —
La disperazione è un lusso per sani di mente. Io non lo ero più. Me ne resi conto un giorno quando, seduta davanti allo specchio della mia camera – che usavo per truccarmi, ma che ora mi faceva da finestra sulla mia vita – mi guardai e riguardai senza riconoscermi.
Ma chi era quella ragazza? Una giovane alta, slanciata, dai capelli bruni ondulati e lunghi fino alle spalle. E con quegli occhi verdi smeraldo, gelidi e vuoti, senza la minima espressione di umanità. Una strega? Una ninfa degli abissi? Una cretina schiava del gioco che si era fatta giocare da una che voleva il suo futuro sposo e l’aveva ottenuto? Una puttanella che aveva venduto il suo corpo per saldare dei debiti di gioco? Una cagnetta in calore che aveva trovato la sua vocazione? Una donna piantata da un vigliacco che non si era nemmeno curato di chiedere il perché?
Erano passati due mesi da quella notte.
In quei due mesi avevo perso il fidanzato, la reputazione, il lavoro e mio padre mi aveva ripudiata. Perfino le mie amiche mi evitavano ormai come la peste. Quel video era apparso su alcuni canali social, aveva ricevuto milioni di click e l’avevano visto, c’era da aspettarselo, anche nel mio ufficio. La chiamata del direttore e la richiesta di dimissioni erano seguite a ruota: «Signorina, mi rendo conto che si tratta di cose personali, ma quando un certo comportamento non rimane nell’ambito privato ma raggiunge un largo pubblico, per l’onore di questa ditta sono costretto a chiederle di dimettersi entro 24 ore. Lei capisce che se non lo fa Lei, saremo costretti a licenziarla per comportamento scorretto nei confronti del nostro studio…» e via di seguito.
Diedi le dimissioni e loro, per dimostrare che non la prendevano a livello personale, mi fecero addirittura una bella lettera che elogiava le mie capacità sul lavoro e dove si dicevano dispiaciuti della mia decisione di lasciare la ditta…
Tutto sommato, devo ammetterlo, si erano comportati da gentiluomini. Con quelle referenze e le mie credenziali di studio potevo trovare un altro lavoro – a patto di cambiare aspetto e città. Di andare lontano, lontano soprattutto da tutti i casinò e i club del mondo.
Sarebbe stata la mia ultima scelta, la mia ultima chance.
Scritto da Maurizio Libbi