Samantha
«Samantha dove vai?»
«Esco».
«Sì, ma dove?»
«Mi trovo con Luciana, Pinko, Samu e gli altri. Tu vai a letto, non aspettarmi alzata».
«Come non aspettarti…vuoi lasciarmi ancora in pena? A che ora hai intenzione di tornare?»
«Non lo so mamma, dai… sono con gli amici, non preoccuparti».
«Se non mi dici dove vai e quando torni, non esci!»
«E invece esco, ormai ho compiuto diciotto anni, te ne sei già scordata? Adesso posso andare dove voglio senza il tuo permesso e poi, uffa, solo tu fai menate…».
Mia figlia, diciottenne da tre giorni, mi parla con voce canzonatoria e irriverente, mi chiude la porta in faccia e la sento scendere veloce le scale. Resto lì, impalata, incapace di reagire, finché sento sbattere anche il cancello. Dalla finestra del soggiorno, vedo che un ragazzo le passa un casco e la fa salire sulla sua moto. Pochi secondi dopo, non la vedo più.
È la seconda volta che succede, due settimane fa, ancora minorenne, mi ha preso alla sprovvista ed è tornata che era praticamente mattina: si è trascinata a letto, ignorando la mia ansia e le mie domande e non si è alzata fino al pomeriggio. Quando è arrivata a casa, ho sentito odore di alcol, ma quando a sera gliel’ho detto, ha negato, accusandomi di avere le traveggole. Io l’odore dell’alcol, però, lo conosco bene: mio padre era un alcolista e lo è stato fino a morirne a soli cinquant’anni. È un odore che ha accompagnato tutta la mia infanzia e giovinezza, non lo posso confondere con un altro!
Papà beveva di nascosto, metteva i cartoni e le bottiglie di vino sotto i sedili dell’auto, negli anfratti del giardino e del garage, dietro alla catasta di legna, pensando di non farsi scoprire, eppure ogni volta che rientrava in casa quell’odore lo accompagnava come un’ombra e lo identificava. Mia madre, povera donna, ha fatto di tutto per farlo smettere, senza mai riuscirci. È morta l’anno scorso e questo fallimento ancora la tormentava.
Samantha non si è mai comportata così prima d’ora. Ne ho parlato con la mia amica Giuliana e mi ha detto che sono fortunata: mia figlia ormai è grande, il suo Andrea, da tutti chiamato Pinko, è dai quattordici anni che la fa tribulare ed è stato bocciato a scuola già una volta. Andrea esce tutti i sabati sera, i suoi genitori sanno che frequenta un paio di pub in città e un altro locale più lontano, nel milanese, uno di quelli dove c’è sempre qualche rapper che si esibisce o improvvisa. Anche loro figlio scrive dei pezzi, poi registra dei video e li pubblica su You Tube. Pare sia bravo e che ci guadagni dei soldi con cui finanzia le sue uscite.
Io a Samantha, per le sue spesucce, do la mancia, cinquanta euro a settimana, ma so che rimedia qualcosa anche dai nonni paterni. Mio marito sostiene che sono troppe, eppure, quando sua figlia lo va a trovare, riesce sempre a scucire qualcosa anche a lui. Noi genitori siamo separati da quattro anni, non ci decidiamo a divorziare. Lui è andato a vivere con quell’altra. Mi avesse tradito con una giovane, forse finirei di tormentarmi, invece, quella ha dieci anni più di me e un occhio strabico! Certo, è la titolare della ditta per cui lavora ed è laureata, come lui, in ingegneria, non una semplice ausiliaria in una residenza per anziani come me. Fatto sta che mi ha lasciato sola a crescere mia figlia: quando glielo rinfaccio, lui ride, dice che Samantha è ormai una donna ed io devo smetterla di pensarla ancora bambina. Insomma, tutti a dirmi che sono una madre troppo apprensiva, che i figli grandi se la cavano da soli e bisogna lasciarli liberi. Sarà, ma io non sto serena, per Samantha voglio esserci, anche adesso che mi fa sentire, improvvisamente, una presenza ingombrante.
Mi metto sul divano, cerco di leggere un libro, “Al di qua del fiume” di Alessandra Selmi. È un romanzo molto bello, che racconta la storia del villaggio operaio di Crespi d’Adda, un luogo di questa terra bergamasca che conosco bene, visto che a volte ci vado a passeggiare. Sebbene i posti mi siano familiari, non riesco a concentrarmi, il pensiero non riesce a distrarsi: dov’è Samantha? Che cosa sta facendo? Tornerà ancora con quell’odore? Prendo il cellulare e la chiamo, tre squilli, poi scatta la segreteria telefonica.
«Sono la mamma. Se hai bisogno di qualcosa chiamami a qualsiasi ora, capito?»
Non so neanche se ascolterà il mio messaggio, mi sembra di avere parlato invano.
Apro la rubrica del telefono in cerca di un nome che mi possa consolare. Mi sento sola e frustrata, mi sento anche fisicamente stanca perché ho fatto il primo turno e mi sono alzata prestissimo. Domani devo riattaccare alle sei, non so neppure se farò in tempo a sentire rientrare mia figlia. Vedo il nome di Maria, una volta eravamo molto amiche, poi, con la mia separazione, ci siamo perse. Lei mi chiamava, io non ero dell’umore di parlare e così non ci siamo più sentite. Mio marito l’ha sempre giudicata un’impicciona, vivendo con gelosia le nostre confidenze.
Maria vive sola, fa l’infermiera al Pronto Soccorso, molti anni fa abbiamo lavorato insieme in una casa di riposo ed è lì che è nata la nostra amicizia. È una donna sensibile, positiva, mi ha sempre incoraggiata e in questo momento sento di avere tremendamente bisogno del suo sostegno. È quasi mezzanotte, non bado all’ora e la chiamo, al limite mi manderà al diavolo.
«Ciao Maria, sono Adele …».
«Ciao Adele, che bello sentirti! Era un pezzo che aspettavo una tua chiamata, come stai?»
«Eh, insomma…scusa l’orario, è che Samantha è in giro di notte e io non riesco a dormire. Ho pensato che tu potessi ascoltarmi un po’».
«Sono in pausa caffè, ma sono in servizio. Ho solo due minuti, poi devo riattaccare in Pronto Soccorso. Termino alle sei e poi ti chiamo, va bene?»
«No, alle sei inizio io».
«Allora ti chiamo nel pomeriggio, tanto domani sono di riposo, così parliamo con calma, ti va?»
«Certo, grazie».
«Allora ti lascio. Mandami un messaggio quando torna Samantha, così sto tranquilla anch’io, okay?»
«Sì, va bene, a domani».
Sono contenta di avere rotto il ghiaccio con Maria, è sempre così accogliente, è come se il lungo silenzio tra noi non ci fosse mai stato. Adesso ho qualcuno con cui condividere le mie angosce per Samantha.
Suona la sveglia, sono le cinque e un quarto, senza volerlo mi sono appisolata sul divano. Oddio Samantha, penso e mi precipito nella sua stanza. Non c’è. Ho il cuore che batte a mille, come faccio ad andare al lavoro senza sapere se mia figlia sta bene, se è tutto a posto, se sta tornando? Cerco di fare colazione, ma ho lo stomaco chiuso, allora vado sul balcone a controllare la strada: nessuno, il buio e il silenzio ancora prevalgono su questa domenica di marzo. Chiamo Samantha. Non risponde. Non lascio neppure un messaggio, la voce della segreteria telefonica mi deprime, non è con lei che voglio parlare. Cammino nervosamente avanti e indietro, non so se recarmi al lavoro o no. No, non posso andare, mia figlia è più importante. Ho deciso, chiederò un giorno di permesso, inventerò qualcosa. Sto per telefonare alla mia responsabile, quando il cellulare squilla, è Maria.
«Adele, ciao. Senti, non agitarti, ma Samantha è qui al Pronto Soccorso per un’intossicazione acuta da alcol. Non sappiamo ancora se ha assunto anche qualcosa d’altro. Io non smonto, sto qui con lei e ti aspetto, va bene?»
«Ma sta male? Dimmi la verità!»
«Sta male, vomita, ma non è in pericolo. I parametri sono buoni. Ti aspetto, dai coraggio, non vi lascio sole».
Mi precipito in ospedale. Mentre sto entrando in Pronto Soccorso, suona di nuovo il cellulare. È la mia responsabile, vuol sapere dove sono finita visto che non mi sono presentata al lavoro e nella confusione non ho più avvertito.
«Mi scusi, sono al Pronto Soccorso, mia figlia si è sentita male».
«Pensi di venire più tardi?»
«Non credo di riuscire…».
«In che casino mi lasci, è anche domenica cavolo…».
«Non ci posso far niente, mi dia un permesso, poi domani vediamo».
«Domani non puoi mancare, ho già due persone in malattia, cerca di venire…».
«Senta, adesso devo andare, la chiamo dopo». Chiudo la telefonata. Ma che cosa vogliono da me? Mia figlia…mia figlia mi interessa adesso, solo lei!
Entro in Pronto Soccorso e mi qualifico come madre di Samantha. L’addetta al triage fa una telefonata e poco dopo mi viene incontro Maria.
«Samantha sta già meglio. Il vomito si è calmato e adesso si è addormentata, ma ti ripeto, i parametri sono buoni, non c’è pericolo, deve stare qui in osservazione».
Mi accompagna in una piccola stanza ricavata con un separé da una più grande. Vedo mia figlia pallida, inerme, che riposa come se fosse stanchissima, con una flebo attaccata nel braccio.
«Che cosa le state dando?»
«La stiamo solo idratando, acqua e sali, non preoccuparti. Puoi restare qui con lei. Qui sul monitor ci sono pressione, frequenza cardiaca, saturazione…, vedi, va tutto bene, se cambia qualcosa, se si agita o altro, mi chimi, okay? Io sto qui nei paraggi».
«Com’è potuto accadere? Samantha è una brava ragazza, non mi capacito, non riesco a crederci…».
«Purtroppo non è raro che ci arrivino ragazzi e ragazze come tua figlia o anche più giovani, soprattutto nel weekend: bevono, a volte si impasticcano o tirano qualche sostanza e poi stanno male».
«E Samantha com’è arrivata? Chi l’ha portata?»
«Di preciso non lo sappiamo, qualcuno ha detto che l’hanno portata qui due ragazzi, che poi si sono subito dileguati. Adesso non ci pensare, l’importante è che sia qui al sicuro. Vado a prenderti un caffè e poi torno. Anch’io ho bisogno di fare colazione o crollo».
Ne approfitto per avvisare mio marito. Sta ad Aosta a passare il weekend, mi chiede se deve proprio rientrare e sento la voce dell’altra in sottofondo. Gli dico di no, che ci sono io con nostra figlia, che ce la stiamo cavando.
Ci vogliono tre ore prima che mia figlia si svegli. La successiva la passa inebetita, con gli occhi persi nel vuoto, ogni tanto mi guarda e piange. Trema, come a comunicarmi che ha paura, che c’è qualcosa che la tormenta. Io l’accarezzo, piango anch’io, continuo a dirle di non preoccuparsi, che non sono arrabbiata, che ne parleremo con calma, che sono felice che si stia riprendendo. Nel frattempo, è passato due volte il dottore, ha confermato che le cose vanno bene e che nel primo pomeriggio la dimetterà. Gli esami tossicologici non hanno rilevato droghe: è stata tutta colpa dell’alcol, il tasso etilico era piuttosto alto, soprattutto per una ragazza della sua età e che fino a poco tempo fa era del tutto astemia.
Anche Maria ha continuato a fare la spola tra noi e le sue colleghe. Bel modo di passare il suo giorno di riposo, penso, e mi sento in colpa, sebbene lei non me lo faccia pesare.
«Sono contenta di averti ritrovata, mi mancava la nostra amicizia, sai? Guarda Adele che adesso non ti lascio sparire di nuovo!».
Parliamo un po’ del più e del meno, per alleggerire la giornata, mi racconta dei suoi progetti per le prossime vacanze estive. Passano altre due ore, Samantha, almeno fisicamente, sta sempre meglio e si riveste per tornare a casa, anche se prima il medico vuole parlarci. Un’infermiera ci avvisa che il dottor Ferraris ci aspetta nell’ambulatorio 106, di seguire la linea gialla, in fondo al corridoio a sinistra.
Ci stiamo avviando al colloquio, quando, inaspettato, arriva Giulio.
«Allora? Che hai combinato Samantha?»
«Ho bevuto della birra e non sono stata bene. Ero in compagnia, non ci ho pensato… È andata così papà, non capiterà più».
«Vabbè dai, non farlo più».
Giulio e Samantha si abbracciano e io mi sento sollevata, anche se lo sguardo di mio marito è diretto a me e sembra giudicarmi colpevole.
«E lei che ci fa qui?»
«Ero di turno in Pronto Soccorso quando è arrivata vostra figlia, non si preoccupi me ne stavo andando» gli risponde a tono Maria.
Arriviamo allo studio 106. Il dottor Ferraris chiede a Samantha se vuole far entrare i suoi genitori e lei, presa forse alla sprovvista e timorosa per quello che sente di aver già combinato, accetta. Il medico illustra brevemente gli esami effettuati e le cure prestate, poi conclude:
«Bene, l’intossicazione acuta è stata superata. Quando succedono queste cose, però, non è mai per caso e noi chiediamo, o meglio, invitiamo i ragazzi coinvolti e le loro famiglie a prendersi del tempo per fare più chiarezza su quanto accaduto. Presso il consultorio della nostra città, in collaborazione con l’equipe di prevenzione del Servizio per le Dipendenze, è attivo un percorso di consulenza e sostegno per adolescenti e giovani che, per varie ragioni, sono incappati nel consumo abbondante di alcol e se vi interessa c’è anche un gruppo per i loro genitori. Si tratta di esperienze nuove, di intervento precoce, che sono state avviate l’anno scorso e che stanno dando buoni risultati. Volevo proporle anche a voi, che ne dite?»
«Grazie, dottore, ma mia figlia si è lasciata trascinare questa volta, non è una ragazza problematica, ha già promesso che non lo farà più e io le credo. È in quarta superiore, va bene a scuola non le manca niente. Io, poi, sono uno che beve un bicchiere solo nelle occasioni, si figuri se devo andare ad un gruppo…Sono un ingegnere molto impegnato al lavoro, non ho tempo per queste cose. Infine, io e mia moglie siamo pure separati e sinceramente non avrei voglia di andare a fare qualcosa con lei come se fossimo ancora una coppia».
«Tu Samantha che dici?» chiede il medico.
«Non lo so, ci devo pensare…».
«E lei signora?»
«Ne parlo con Samantha e poi decido. Faccio i turni, non so se riesco effettivamente a frequentare un gruppo. Non lo escludo, ma devo saperne di più, insomma capire se ci può essere d’aiuto o meno…».
«Okay, prendetevi il tempo per decidere con calma, ma il mio consiglio è quello di non prendervene troppo. Questo è il numero di telefono che dovete chiamare se interessati. Il progetto si chiama “Io ci stop”.
Arrivati a casa, Samantha chiede di coricarsi ancora un po’. Si mette a letto con le cuffiette nelle orecchie, ha bisogno di isolarsi.
Raggiungo mio marito in salotto, mi fa strano vederlo qui nel nostro appartamento, si guarda in giro per individuare tutti i cambiamenti che abbiamo apportato da quando se n’è andato.
«Hai cambiato divano, tende…non te la passi male, eh? Lo usi per questo quello che ti do per nostra figlia?»
Il suo occhio indagatore mi irrita, ma non voglio cadere nelle sue provocazioni. Se fosse più attento, si accorgerebbe che ho solo ravvivato il vecchio sofà con un telo colorato e si ricorderebbe che ho sempre amato confezionare qualcosa con la mia macchina da cucire. Neppure gli rispondo, spero se ne vada presto, sebbene mi abbia fatto piacere vederlo arrivare in ospedale per Samantha: nostra figlia non deve subire i nostri battibecchi.
«Ti posso offrire qualcosa?»
«No, adesso devo andare. Ma dimmi un po’, non avrai intenzione di portare nostra figlia a quel consultorio?»
«Deciderà lei se andarci, è maggiorenne, lo sai?»
«Ma fammi il piacere, per una ragazzata, non vorrai che mettano nostra figlia e noi sotto esame?»
«Non credo che intendesse questo il dottor Ferraris. Credo sia un aiuto per capire che cosa è successo, per starle accanto in questo momento di difficoltà e lasciarcelo più serenamente alle spalle».
«Dai non metterla giù dura, non esagerare come al tuo solito!»
«Ma la vuoi capire che Samantha è finita in Pronto Soccorso ubriaca? Ti sembra solo una ragazzata? E l’altra volta che è tornata alterata? Ti ricordi che ti ho avvertito, vero?»
«Ubriaca? Ha bevuto un paio di birre e ha vomitato! Comunque, adesso ha capito che ha sbagliato. È intelligente nostra figlia, no? E dalle un po’ di fiducia!»
«Magari fisserò un appuntamento solo per me, io sento di avere bisogno di un aiuto…».
«Ecco brava, se vuoi vacci tu, ma lascia fuori nostra figlia. In effetti è la tua famiglia che ha delle tare. Tuo padre sì che era un alcolista, un beone di prima categoria!»
«Non offendere mio padre e la mia famiglia, che ti prende?»
«Ti dà fastidio la verità?»
«Mi dà fastidio il tuo tono. Tu non sai niente di mio padre…».
«Finiamola qua, guarda, non me ne frega niente di quello che vuoi fare e della tua famiglia, basta che lasci in pace nostra figlia. E adesso ti saluto. Chiamerò Samantha più tardi».
Finalmente un po’ di silenzio. Mi stendo sul divano e mi torna il pianto, mi escono le tensioni accumulate, i sensi di colpa, la tristezza, le paure: è tutto un mix di emozioni che prende il sopravvento. Sono immersa nei miei pensieri, quando, improvvisamente, mi sento toccare alle spalle.
«Mamma, dai…».
Mi asciugo gli occhi velocemente e abbraccio mia figlia.
«Ora sto bene, non preoccuparti».
Restiamo lì abbracciate per un po’, poi prendo coraggio e chiedo:
«Adesso ti va di raccontarmi che cosa è successo?»
«Siamo andati al Mimo, un grande pub di moda tra i giovani. Si esibivano Pinko e il suo amico Bubak, rap e techno a manetta per ore, molti altri ragazzi che si alternavano al microfono. Lì, se prendi due medie, la terza è in regalo e alla quarta consumazione, ieri, ti davano in omaggio un cappellino fluo. C’era un sacco di gente, il locale era pieno».
«E ti sei lasciata coinvolgere. Tu non hai mai frequentato questi posti né bevuto alcol, perché ultimamente lo fai?»
«Infatti! È che per gli altri sono troppo perfetta, sono brava a scuola, sono bella, sono seria… Due mesi fa, sono stata l’unica a prendere un bel voto nel compito di matematica e hanno iniziato a prendermi in giro, a sfottermi in continuazione, a mandarmi messaggini offensivi. Mi hanno scritto cose bruttissime, mamma…»
«E tu?»
«Ho provato a uscire insieme ad alcuni di loro per vedere se mi accettavano; sembrava di sì e invece…ci sono cascata come una stupida. A bere pensavo di non essere più una diversa, una perfettina sfigata come dicono loro, in realtà facevano gli amiconi per farmi continuare con la birra, poi ai primi cenni di ubriacatura hanno iniziato di nuovo a ridere alle mie spalle. Si divertivano capisci? Quando ho iniziato a stare male sul serio, si sono spaventati e siccome non riuscivo a reggermi in piedi, una coppia di un’altra compagnia, che neanche conosco, è intervenuta e mi ha portato in ospedale».
«Perché non mi hai raccontato di questa situazione di bullismo prima d’ora?»
«Hai già i tuoi problemi, mamma».
«Tu sei più importante di tutto, amore…»
«Boh…».
«Queste cose vanno affrontate alla radice. A diciotto anni ancora fanno i bulli? Chi è il capobanda? Chi è che ti fa soffrire? Ma i professori lo sanno?»
«No mamma, ti ho raccontato tutto, ma non me la sento di dirlo a scuola, dai lascia perdere, non crearmi problemi anche tu!»
«Sì, okay, ho reagito d’impulso, scusami, però dobbiamo fare qualcosa. Io ho paura per te Samantha, potrebbero prenderti di mira di nuovo e non so come potresti reagire… Facciamoci consigliare: persone più esperte possono aiutarci a capire come muoverci. Che dici, chiamo questo numero domani?»
«Va bene mamma, però solo per informarci».
Mi sento sollevata, non so se è la strada giusta, ma da qualche parte bisogna partire. Restiamo diversi minuti in silenzio, mia figlia si lascia coccolare come quando era piccola, poi, tutto d’un tratto mi chiede: «Perché non mi hai mai detto che il nonno beveva? Ho sentito papà prima».
«Non stavi ascoltando musica?»
«Sì, ma alzava talmente la voce…».
«L’alcol ha ucciso il nonno quando io avevo più o meno la tua età. Sono passati molti anni, eppure per me è ancora una ferita aperta e non ne parlo volentieri. Ho tanti ricordi tristi. Mi aveva promesso molte volte di smettere, purtroppo non l’ho mai visto sobrio per più di una settimana. Ha perso gli amici, i parenti si sono allontanati, è stato licenziato. La nonna andava a fare i mestieri in casa di altre famiglie per mantenerci, abbiamo passato momenti duri».
«Ma perché si ubriacava?»
«Rientrava da una festa, forse aveva bevuto più del solito, ha causato un incidente stradale ed è morta una persona. Da lì ha perso il controllo, i bicchieri sono diventati bottiglie, non è più stato lui. Poi forse c’erano anche altri motivi, io ero troppo giovane, non mi davano spiegazioni. Non era violento, beveva e si isolava sempre più. Io vivevo come sospesa, volevo aiutarlo e non sapevo come fare».
«Mamma, chissà che cosa hai provato a vedermi al Pronto Soccorso intossicata! Mi perdoni?»
«Non c’è niente da perdonare, amore mio. Ho solo avuto paura che l’alcol tornasse nella nostra famiglia, ma noi non glielo permetteremo. E tu mi aiuterai in questo, vero?»
Scritto da Roberta Mangili.