Amore tossico
Sarò stato alla sesta birra – Tennent’s super ovviamente – quando la porta trillò ed entrò lei nel bar. Il mio sguardo le si incollò addosso come una calamita al metallo. Prese posto a un tavolino da due, di quelli appoggiati al muro del bar con la visuale, dall’altra parte, sull’ampia vetrata che dava sul marciapiede e su quello squarcio di città. Non avevo mai visto una ragazza più affascinante di lei. Era come un mistero, un enigma da risolvere. Portava un vestito nero, scollato, che le arrivava fino alle ginocchia lasciando vedere i polpacci muscolosi. Ai piedi aveva stivaloni neri, di quelli con le cuciture gialle dove la suola incontra il cuoio della scarpa. Quando il barista arrivò al suo tavolo, ordinò un gin tonic. “Poco tonic, molto gin” ci tenne a specificare con un mezzo sorriso. Io mi scolai la mia sesta super birra e, preso da un coraggio alcolico che diversamente non avrei mai avuto in condizioni di sobrietà, andai al suo tavolo.
– Posso offrirtelo io il cocktail? Piacere, io sono Roberto – e le tesi la mano.
– Oh ma che gentile, che ci sarà dietro? Forse un ubriacone che vuole farsi una scopata? Vai tranquillo, posso pagare da sola, grazie.
Al posto che sentirmi offeso, umiliato, sotterrato dalle sue parole, mi feci una grossa risata e le dissi che non volevo affatto scopare, ma che ero sempre solo e volevo fare due chiacchiere. Poi certo, se si fosse arrivati a quel punto non mi sarei sicuramente tirato indietro. Ma le dissi che volevo conoscerla. Avevo pochi amici, i pochi che mi erano rimasti vicini dopo la mia caduta vertiginosa nell’alcolismo, la quale aveva fatto piazza pulita di relazioni. Anche la mia ragazza, Jacqueline, che chiamavo semplicemente Jacky, mi aveva lasciato, stufa marcia di vedermi tornare a casa dopo il lavoro ubriaco perso, barcollante, sbiascicante, perché nel tragitto casa-lavoro ero solito farmi la mia solita sosta all’ Eden bar, situato nel centro della città.
– Quindi insisto, te lo offro io il cocktail – dissi e mi sedetti al suo tavolo, di fronte a lei, con arroganza, non invitato.
Lei si ravvivò i capelli, di un biondo abbagliante, con un movimento delle mani dietro le spalle, e si sistemò la coda che ne teneva ferma la parte superiore. Insomma aveva la coda, ma parte dei capelli erano sciolti e le ricadevano sulle spalle. Aveva l’aria un po’ nordica, sapete, germanica, di quei paesi del nord. Uno sguardo freddo, gelido, occhioni azzurri che mi avevano dato i brividi quando si erano fissati nei miei dopo che mi ero accomodato senza invito. Era un’occhiataccia, come a dire “che cazzo stai facendo?”. Aveva sottili labbra rosate, che stringeva e serrava quando doveva esprimere del disappunto, del fastidio, dell’odio, come in questo caso.
– Potresti iniziare a dirmi come ti chiami, invece che guardarmi male – la incalzai io, ringalluzzito da tutte le birre che avevo bevuto. Lei smise di fissarmi in cagnesco, e rivolse i suoi bellissimi occhi alla vetrata del bar, allo scorcio di città che mostrava.
– Mi piace molto qui, sai?
– A me no. Questo è un posto di merda.
– Trovi? A me piace. Ѐ tranquillo, e la gente si fa i fatti suoi.
– Si vede che sei una straniera, non ti avevo mai vista da queste parti, e conta che io sono qui praticamente ogni giorno. Questa è una piccola città, e la gente parla, parla ma soprattutto sparla. E per forza, non c’è niente da fare. Il lavoro si concentra tutto nella zona industriale. Qui, a parte i negozi di abbigliamento e robe varie, parrucchieri, estetisti, tabaccai, edicole, minimarket, kebabbari e insomma tutto il minimo indispensabile che una città deve avere, non c’è nient’altro.
– Scommetto che tu sei l’alcolizzato del paese – disse lei con una risatina sommessa.
– Brava! – urlai sbattendo il pugno sul tavolo, e facendo traballare pericolosamente il suo gin con uno sputo di tonica dentro.
– Ma – continuai – anche tu non ci vai giù leggera, a quanto vedo. Ci sarà solo gin dentro quel bicchiere.
– Già, a me piace così. E comunque io mi chiamo Marta.
Ci stringemmo la mano allungando il braccio sul tavolo.
– Molto piacere Marta. Da dove arrivi?
– Mmm, diciamo che per parlare del mio passato mi servirebbe qualche altro cocktail.
Scoppiai in una risata fragorosa, e chiamai il cameriere. Ordinai un altro Gin senza tonica per lei, e in quanto a me, tanto per cambiare un po’ (di birre super strong me ne ero già scolate sei) ordinai un coca e rum.
– Marta, Marta, Marta. Sai, quando ti ho vista entrare nel bar, sono stato come folgorato. Tu hai una bellezza difficile da descrivere, e anche da trovare. Sei pura, direi. Si, pura. Come una sorgente cristallina che sgorga dai monti. Hai questo sguardo d’acciaio che metterebbe in croce chiunque incontri. Ma vieni dal Nord?
– Ma che Nord. Vengo dalla grande città, quella che probabilmente attira tutti i giovani dei paesini come questo per l’Università e le possibilità lavorative. I giovani scappano dal paesino, e io ho fatto il contrario, sono scappata dalla grande città. Sono qui di passaggio, ho un po’ di soldi da parte e li userò per esplorare un po’ la zona, i dintorni, e per decidere dove stabilirmi.
– Uno spirito libero, dunque.
– Se così si può chiamare, sì.
– Tu hai del dolore dentro, te lo leggo negli occhi. Non sei scappata dalla città per niente, devi aver avuto delle grandi sofferenze. Non puoi nasconderlo.
Lei, sorseggiando il drink, si prese un po’ di tempo per rispondere.
– Diciamo che stavo con una persona.
– Eccola là, sempre così. Fammi indovinare, lui ti ha tradita e tu lo hai mandato a fanculo. Vi siete conosciuti da piccoli, e vi siete promessi amore eterno. Poi lui ha avuto una scappatella con una studentessa universitaria, e tu gli hai chiuso la saracinesca in faccia e sei scappata.
– Ci hai quasi preso. Ѐ vero che l’ho conosciuto da piccolo, e che siamo cresciuti insieme, e poi verso le superiori ci siamo messi insieme. Volevamo sposarci alla fine dell’Università. Lui ha fatto Giurisprudenza, ed è diventato un avvocato di successo. Io ho fatto Lettere moderne e contemporanee, e per un po’ me la cavavo con le supplenze. Quello stronzo si scopava la segretaria praticamente dalla prima settimana del suo ingresso in quello studio. Era una mattina assolata di maggio, io avevo finito le lezioni e avevo pensato di portargli il pranzo in ufficio, per fargli una sorpresa. Li ho beccati in flagrante. Se la stava scopando sulla scrivania, ti rendi conto?
– Oddio, mi dispiace molto, e tu che hai fatto?
– Primo, non è vero che ti dispiace. Secondo, gli ho lanciato il kebab ancora caldo in faccia, l’ho insultato in tutti i modi possibili lui e quella zoccola di merda, e poi sono andata a casa a prendere le mie cose. La macchina è sua, ma l’ho presa lo stesso. La vera merda è che lui è un avvocato, e sa far valere i suoi diritti. Ma diciamo che non gli ho dato il tempo di dire “bah” che sono sparita. Ha provato a seguirmi ma gli ho tirato un pugno in faccia. Poi boh, sarà tornato indietro a scopare ancora, che ne so. Io sono andata a casa, ho fatto una borsa con l’indispensabile, ho preso la macchina e me ne sono andata. Beh, eccomi qui. Adesso è il tuo turno.
– Alla faccia che storia. Un pugno in faccia? Ossignore, sei una tosta. Quanto a me non c’è molto da dire. Non mi piaceva studiare, non ho neanche finito le superiori – facevo l’istituto tecnico per diventare elettricista – e allora mio padre, operaio, mi ha trovato un posto nella fabbrica dove lavorava lui. Una cartotecnica, per la precisione. E da allora sono lì, a soffrire come un cane perché il lavoro mi fa schifo, ma so di non avere alternative. Ah, e mi sono lasciato da poco con la mia fidanzata. Era stufa di vedermi tornare a casa ubriaco. Un giorno, una sera per la precisione, sono tornato e c’erano valigie a terra con tutte le sue cose dentro. Mi aveva aspettato per dirmi addio. Piangendo, mi ha detto che ero un alcolista, che avrei dovuto farmi aiutare perché è una malattia e mi stava mangiando tutto, la passione per la vita, le relazioni con gli amici, e adesso pure il fidanzamento. Mi ha pregato e scongiurato di farmi dare una mano. Di parlare con uno psicologo, di andare al Serd, di partecipare ai gruppi di recupero, insomma, di mettere una pezza ad una tubatura ormai squarciata che sparava acqua dappertutto. Così mi ha detto. E io ero ubriaco, e le ho detto “o mi accetti come sono, o quella è la porta, io non sono un alcolista e ho il controllo della situazione” e le ho detto anche “l’alcol è l’unica cosa che rende vivibile la mia vita di merda”, al che lei, con le lacrime agli occhi che parevano fiumi, ha preso baracca e burattini e se n’è andata. E ora eccoci qui.
– Già, eccoci qui – con aria assorta, gli occhi sempre sulla vetrata, sorseggiando il drink.
– Tu pensi che sono un alcolista?
– Tu? Certo che sì. Ma io non sono da meno. Ho iniziato a bere perché mi calmava la rabbia, la frustrazione, l’angoscia, e mi faceva sentire meno l’ingiustizia di quello che avevo subito.
– E dovremmo fare qualcosa? Per il nostro “problemino” dico.
– Mmm….nah. Per me questo è il momento di sballarmi. Non ho nessuna voglia di tornare alla realtà schifosa di sempre. Non ho neanche un posto che io possa chiamare casa cazzo. Sono una nomade.
– Io una casa ce l’ho. Ѐ lei che se n’è andata, e neanche mi ha detto dove. Se vuoi andiamo da me a bere ancora un po’.
– Perché no. Sai, sei carino anche tu, se solo ti togliessi quell’espressione da ebete fattone e ubriacone che ti viene quando bevi.
Scoppiai in un’altra risata, battendo le mani sul tavolo – Tu mi fai morire – le dissi.
Almeno avemmo l’accortezza di non prendere la macchina. Dopo tre bicchieri di praticamente solo gin, anche lei era malferma sulla gambe e barcollava un po’. Certe volte mi si appoggiava contro, e io sentivo il suo seno morbido schiacciarsi contro il mio fianco. Poi mi prese a braccetto, e continuammo così lungo tutto il viale alberato, attraversando il centro della città, dirigendoci verso la zona residenziale, dove stava il mio appartamento. Parlavamo fitti, discorsi e dialoghi sui massimi sistemi, sul senso dell’universo in continua espansione per poi tornare alle nostre vite disastrate, a che senso aveva tutto questo, a cosa avremmo dovuto fare, e mai ci passava neanche per l’anticamera del cervello di smettere di bere. Ci fermammo a un bangla e comprammo una bottiglia di vino, che mi feci aprire dal pakistano alla cassa. Poi continuammo a camminare, passandoci la bottiglia come fosse una canna, due sorsi io, due sorsi lei. Tre io, tre lei, e così via. Arrivammo sotto casa che la bottiglia era vuota. Ci misi due ore a trovare la chiave giusta e a infilarla nella serratura. Una volta in ascensore, lei mi prese per le spalle, mi sbatté contro la parete e mi baciò. Una prima volta, timidamente, labbra contro labbra. Poi ci prendemmo gusto, e i baci si fecero lunghi, appassionati, sensuali, le mani di ognuno che esploravano il corpo dell’altro con delicatezza e curiosità. Io le alzai il vestito, carezzandole la coscia, e le palpai il seno. Lei mi toccava i pettorali, poi scese giù, sugli addominali, e poi mi mise una mano sul pene turgido ed eretto che avevo già da un po’, e me lo massaggiò. Quando l’ascensore si fermò al quarto piano ci staccammo, la presi per mano e la diressi verso la porta di casa mia. Anche qui un’ora per trovare la chiave e infilarla nella serratura, era tutto un moto ondoso nella mia testa, tutto girava, ma ero eccitato, sovreccitato, in piena adrenalina, e lei era bellissima con quella sua aria un po’ sfatta, il trucco un po’ sbavato e il vestito scompigliato. Finalmente riuscii ad aprire la porta di casa e ci fiondammo dentro. Non arrivammo neanche alla camera da letto. Nel soggiorno c’era un ampio divano, e io le sfilai il vestito dalle spalle, lo feci scivolare giù a terra e mentre lei si toglieva gli stivaloni io mi spogliavo. La coricai sul divano e facemmo l’amore. Fu intenso, probabilmente aumentato dallo stato di ebbrezza, ma la passione c’era, era pulsante, mi rombava dentro, e mi godetti ogni istante di quel bellissimo amore con una sconosciuta trovata in un bar. Ad un certo punto volle comandare lei, e ci girammo, io sotto e lei sopra. Gemeva, godeva, ogni tanto strillava finché io non venni dentro di lei con un orgasmo epico, colossale, totalizzante, dopo il quale ci staccammo e rimanemmo sdraiati così, abbracciati stretti, nudi – ad un certo punto mi alzai e presi una coperta di pile e coprii entrambi – tutti e due ancora ansimanti, ma lei a un certo punto si girò, mi fece un sorriso che mai dimenticherò nella mia vita e mi baciò sulla bocca.
– Se vuoi possiamo andare sul letto, è più comodo.
– Mi va bene qui.
– Come vuoi.
La mattina seguente ci alzammo tardissimo, con i postumi di una sbronza colossale. Il sole era già alto nel cielo, e noi sembravamo anime smarrite nello spazio-tempo, zombie barcollanti senza uno scopo. Mentre lei era sotto la doccia preparai qualcosa per colazione. Uova strapazzate con del prosciutto e del formaggio sopra. Poi andai nella doccia io. Me la feci ghiacciata, proprio per riprendermi e rimettermi in sesto, ma avevo un mal di testa pulsante e una sensazione di essere sporco che non mi passava, che non mi dava tregua, anche se mi lavavo e sfregavo bene con la spugna. Anche lo stomaco non era messo bene.
– Come stai? – le chiesi.
– Una vera merda, e tu?
– Idem. Sai qual è la miglior medicina per un post-sbronza? Un’altra sbronza!
Lei scoppiò a ridere, ma poi mi prese seriamente e decidemmo di andare di nuovo al bar.
– Stavolta offri tu – le dissi.
Eravamo ormai in piena estate, si girava in maniche corte, lei si era cambiata e si era messa un paio di leggings e una t-shirt bianca stretta sopra. Ragazzi, era bellissima. Decidemmo che prima avremmo preso le macchine, ciascuno la sua, e le avremmo portate sotto casa mia. E poi saremmo tornati al bar per una seconda sbronza colossale. Io non riuscivo a pensare ad altro, e neanche lei penso, perché non opponeva resistenza e non controbilanciava la mia idea con idee migliori.
– Dopo il bar ti porto a San Martino – le dissi.
– Cosa sarebbe?
– Ѐ una chiesa, posta nel punto più alto della città. Da lì si vede tutto, la grande città in lontananza e, ancora più lontano, le montagne. Ci facciamo un paio di birre lì e poi torniamo a casa, che ne pensi?
Andò tutto secondo i piani. Raggiungemmo la chiesa con due confezioni da tre di birra, una a testa, ci sedemmo sullo schienale di una panchina, bevendo e osservando il panorama.
– Ѐ magnifico. Ѐ davvero stupendo. Grazie, Roby.
Le diedi un bacio sulla bocca, e continuammo a contemplare il paesaggio e a bere.
– Sai che ho preso ferie da lavoro? – le dissi all’improvviso.
– E perché scusa?
– Per stare con te no, scema! Per aiutarti nella ricerca di un nuovo posto dove vivere.
Ma quella ricerca non ebbe mai inizio. Fu così che iniziò per noi una rapida discesa agli inferi. Chissà cosa sarebbe successo se non ci fossimo mai incontrati. Lei probabilmente avrebbe continuato a girovagare alla ricerca di un posto dove stabilirsi, e io avrei continuato a fare il lavoro che odiavo e a bere dopo. Il destino ci fece incontrare, e l’alcol fu il prete che sancì la nostra unione, che la legittimò, che la rese possibile, e fu anche la benzina che alimentava il motore, perché noi due ci ritrovammo nell’alcol, nella potente e smodata passione per la sostanza, e non ci rendevamo minimamente conto in che razza di guai ci stavamo cacciando. Così passarono i giorni, ma la sostanza non cambiava. Anzi, peggiorava sempre di più. Ben presto iniziammo a bere già di mattina, come colazione. La casa era in uno stato pietoso, nessuno si degnava di dare una pulita, c’era polvere ovunque, incrostazioni nei sanitari del bagno. Per non parlare dei rifiuti. C’erano bottiglie vuote ovunque, il frigo pieno di alcolici, sul tappeto ai piedi del divano, dove eravamo soliti mangiare, c’erano cartoni con pizza fredda avanzata, che noi riciclavamo per mettere qualcosa sotto i denti al mattino, e qualsiasi tipo alimento che ci facevamo portare a casa dai riders. Burritos, kebab, noodles con verdure in appositi cartoni che nessuno dei due si dava la pena di buttare via. Man mano uscivamo sempre di meno, giusto per comprare alcolici e basta. Poi si ci sbronzavamo in casa, facevamo l’amore e continuavamo a condurre quella vita sregolata nella quale ci aveva piombati l’abuso di alcol. Diventammo pigri, indolenti, l’unico nostro interesse era bere, sempre e comunque.
Un mattino, all’improvviso, ci svegliò lo scatto della serratura e la porta che si apriva. Scendemmo dal letto in fretta e furia, lei in completino intimo sexy, io in boxer, e trovammo Jacky che, immobile sulla soglia di casa, fissava il disastro.
– Oh, ma che diavolo è successo alla casa? Sembra un rifugio di tossici! Cos’è, hai iniziato a farti di eroina? E questa chi è?
– Non sono affari tuoi, che ci fai qui?
– Hai fatto presto a rimpiazzarmi, eh? Sono venuta a prendere le ultime cose, sempre se riesco a districarmi in questo casino. Ma come fate a vivere in un disastro del genere! Sembra che sia passato un esercito che si sia fermato a rifocillarsi!
Marta la fissava con una delle sue solite occhiate gelide. Si chinò a prendere una bottiglia di vodka ai piedi del letto e diede una lunga sorsata.
– Tu chi saresti, spiegami.
– Sono Marta. Sto con il tuo ex, problemi?
– Problemi? E me lo chiedi? Ma ti guardi intorno? Sembra di stare in una stalla! C’è una puzza tremenda, ma come fate a vivere così! Qua vi bestemmierebbe contro anche una ditta di pulizie! Ma vi rendete conto a che livello di sudiciume siete arrivati?
E, notando la bottiglia – vedo che hai trovato qualcuno di simile a te, molto bene, complimenti, la famiglia degli alcolisti si allarga.
– Senti Jacky – iniziavo a incazzarmi sul serio – vedi di prendere la tua roba e sparire. Mi hai lasciato tu, e adesso non è che vieni qui a rinfacciarmi la vita che facciamo. Io sto con un’altra persona, fattene una ragione.
-Ma non è questo! Allora non hai mai capito un cazzo! Io sono in pensiero per te, anzi, sono terrorizzata! Tu sei finito in una spirale diabolica dalla quale non riesci a uscire! Hai mai provato a stare senza alcol un giorno? Prova, vediamo come ne esci.
– Io non accetto consigli da te, sono perfettamente in grado di avere il controllo…
– E si vede! – lo interruppe lei – avete reso questa casa una discarica, bevete vodka di mattina, ma dove pensate di arrivare? Cosa pensate di ottenere? Vi state autodistruggendo, e anche molto velocemente! Io non posso fare niente se non quello di pregarvi di farvi dare una mano. La situazione vi è scivolata via, vi è sfuggita, e se continuate così sarà sempre più difficile uscirne. Fatevi aiutare, vi prego!
– Tu non sei nessuno per dirmi quello che devo fare, neanche mi conosci! – le urlò in faccia Marta.
– Stai bevendo vodka alle 8 del mattino, mi pare ovvio che ci sia qualcosa che non va.
– Pensa agli affaracci tuoi – rispose lei.
– Sentite, io ne ho abbastanza di sprecare fiato. Quello che dovevo dire l’ho detto, adesso fammi prendere ste due robe e poi vi lascio al vostro destino di alcolisti. Io sono impotente, ho le mani legate, dovete essere voi a decidere. Deve essere un desiderio che nasce dal profondo della vostra anima quello di guarire da questa malattia infame. Tutt’intorno a voi c’è gente pronta a tendervi una mano per tirarvi su dal pozzo nero in cui siete caduti. Io vi invito solo a prendere quella mano, stringerla con forza e tirarvi su, prima che sia troppo tardi. La cirrosi è dietro l’angolo.
Marta, con la bottiglia di vodka ancora in mano, sentì qualcosa di strano dentro di lei. Un qualcosa che le risuonava dentro, andando a vibrare con certi suoi… chiamiamoli pensieri, o presentimenti. Non era tanto il fatto della cirrosi, ma si rese perfettamente conto che stavano vivendo in un immondezzaio, che la situazione gli era veramente sfuggita di mano, e che questo non andava assolutamente bene. Aveva perso di vista il suo obiettivo, che era quello di trovarsi un bel posto in cui vivere, in cui ricominciare tutto da capo, una vita nuova, e invece aveva conosciuto un alcolizzato come lei ed erano finiti a mangiare pizza fredda a colazione condita con birre, quando andava bene. Ma era questa la vita che voleva? Marta non lo sapeva più, era in uno stato confusionale – praticamente aveva bevuto pesantemente tutti i giorni da quando aveva conosciuto Roberto quel giorno al bar – e aveva smarrito la sua essenza, il suo slancio vitale, il suo Io più profondo. Marta, quando Jacky se ne fu andata imprecando – Non verrò al vostro funerale, ve lo potete scordare – decise di affrontare Roberto.
– Roby vieni qui, sediamoci al tavolo della cucina, prepariamoci una colazione decente e parliamo.
– Mmm, ok, che si mangia?
– Una bella tazza di yogurt con i cornflakes. Ti va lo yogurt alla banana? Anche se non ti va te lo mangi, c’è solo quello.
Io la raggiunsi in cucina, e mi accomodai al tavolo.
– Allora, che c’è?
– Per quanto mi dia fastidio dirlo, e giuro che me ne dà tantissimo, ha ragione la tua ex. Abbiamo sbagliato tutto. La situazione ci è sfuggita di mano.
– Ci stiamo solo divertendo un po’, dai – le dissi io per minimizzare – metterò a posto tutto sto casino, prendo un sacco nero e ci metto dentro tutto, cartoni della pizza, stagnole di kebab, cartoni dei cinesi, bottiglie, tutto. E poi darò una spolverata e una passata ai pavimenti. Vedrai che sarà accogliente e che ti piacerà. Perché non valuti l’idea di fermarti qui da me? Insomma – continuai – mi sembra di capire che c’è del feeling. E poi dai, vuoi mettere, ieri abbiamo fatto l’amore sotto la doccia.
– Si ma ieri era ieri, e oggi è oggi. E noi dobbiamo costruire, e invece l’alcol, come una ruspa, distrugge tutto, brucia tutto quello che incontra. Io penso di essere dipendente. Ci siamo lasciati andare, immersi nel nostro sogno alcolico, dove l’alcol era il nostro tappeto volante e ci faceva veleggiare con leggerezza sul mondo. Ma non è la realtà, capito? La realtà è il mondo dove dobbiamo vivere, e non dal quale scappare.
– Dai, adesso, dipendente, non esageriamo.
– Tu pensa a quant’è che non stai un giorno senza bere. Pensi che non abbia notato come ti tremano le mani al mattino? Che non riesci neanche a tenere una tazzina di caffè e sei costretto ad afferrarla con due mani? Questo è un sintomo dell’alcolismo.
– Oh Marta, non iniziare così che mi pari la mia ex. Senti, ti propongo una cosa. Un’ultima festa, un’ultima mitica e colossale sbronza, e dopo stop per sempre. Io e te sobri. Te lo prometto. Te l’ho detto, puoi stare qui da me e guardarti intorno, e io finite le ferie tornerò a quel lavoro di merda, ma concediamoci un’ultima follia. Un ultima danza nella marea dei folli.
– Mmmm… poi mi giuri che smettiamo? Che smetti anche tu? Perché io non posso sopportarti ubriaco mentre io tento di stare senza.
– Ma certo, promesso! Qua la mano.
Ci stringemmo forte la mano, poi ci sorridemmo, entrambi guardandoci fissi negli occhi, e il suo sguardo questa volta esprimeva amore e gioia. Ero così contento che mi misi a urlare “Che la festa abbia inizio!”.
Misi il cd dei Nirvana a palla, e noi ci mettemmo in quel casino di salotto a saltare e ballare, passandoci bottiglie varie, tutte di superalcolici, inframmezzate a volte da qualche birra. Io non pensavo seriamente di smettere, ma pensavo che per lei ce l’avrei anche potuta fare. Era questione di sfogarsi con qualcos’altro. Magari mi sarei iscritto a un corso di boxe, a scaricare la rabbia sul sacco. Ecco, era lo sport che mi mancava. Avevo una pancia imbarazzante, da birraiolo proprio, e mi ero lasciato andare di brutto. Mi sarei ripreso il mio fisico – notate che tutti questi buoni propositi mi vennero su in contemporanea con l’effetto gioioso dell’alcol – sarei andato a correre, sarei tornato a essere un figurino, come quando avevo 20 anni. In ogni caso, anche se quella era l’ultima festa, consideravo il mio stop all’alcol ancora molto, molto, molto lontano.
All’improvviso Marta ebbe come un’oscillazione. Smise di saltare e di ballare, si fermò e iniziò a barcollare. Di colpo crollò a terra priva di sensi. Io andai subito in allarme, buttai via lontano la bottiglia di tequila che tenevo in mano e andai a soccorrerla.
– Marta! Marta! Cosa c’è? Marta mi senti? – Niente. Non rispondeva agli stimoli verbali. Provai ad alzare la voce, ad urlare, a prenderla dalle spalle e a scuoterla violentemente, ma lei non si svegliava. Era proprio collassata, crollata giù come un edificio a cui cedono le fondamenta. La presi in braccio, la sdraiai sul divano e le controllai il respiro. Per fortuna quello c’era, il suo petto si alzava e abbassava impercettibilmente. Era di un pallore spaventoso, con le labbra leggermente bluastre. Chiamai il 118.
Fecero anche in fretta. La caricarono su una barella e poi scesero i quattro piani di scale, dato che non ci entrava nell’ascensore. Mi permisero di andare con loro, e io, lungo tutto il tragitto fino all’ospedale, le strinsi la mano, la accarezzai dolcemente, ogni tanto provavo a chiamarla ma lei niente, nessuna reazione. La baciai più volte in fronte, e le parlavo, anche se non poteva sentirmi (o forse sì, chi lo sa) dicendole che presto sarebbe stata bene, che stavamo arrivando in ospedale, che presto tutto sarebbe finito. Ero spaventato a morte. E se non si fosse più svegliata? Da quello che potevo capire si trattava di coma etilico. Intossicazione acuta da alcol. La misero nella saletta di emergenza del pronto soccorso, da dove le monitoravano costantemente il respiro, il battito cardiaco, la saturazione, e poi tante ma tante flebo di soluzione fisiologica per ripulire il sangue dalle tossine alcoliche. Mi dissero che non sapevano quando si sarebbe svegliata, ma che i parametri erano buoni, c’erano tutti, e adesso toccava aspettare.
Io ero ancora terrorizzato, ma non mi rendevo conto che questa faccenda fu la cosa che mi salvò la vita. Lasciai Marta lì, nella saletta, promettendole che sarei tornato prestissimo con un bel mazzo di roselline colorate, e mi diressi in centro paese. Dovetti cercare l’indirizzo su Google Maps. Solo qualche ora prima non avrei mai creduto di poter fare quello che stavo facendo. Arrivai al portone, suonai al campanello e partì una musica. Dopodiché si aprì la porta. Io salii le scale per andare al primo piano, dove c’era l’accettazione. Arrivai dall’infermiera che mi fissava dietro uno spesso strato di plexiglass.
– Ha bisogno?
– Sì, direi di sì. Sono Roberto, e sono un alcolista.
Fu strano sentire la mia voce pronunciare quelle parole. Sapevo da tempo di esserlo, ma lo negavo a me stesso, cercavo le peggiori scuse per rifuggire dal problema e continuavo imperterrito la mia vita da dipendente da alcolici. Quella fu una presa di posizione. L’avevo promesso a Marta, ma soprattutto lo facevo per me stesso. Mi ero spaventato a morte, e fu come se notassi per la prima volta quanto l’alcol potesse essere cattivo, se utilizzato in maniera smodata. Mi assegnarono un medico e mi diedero un appuntamento in settimana, notando che ero palesemente ubriaco e necessitavo di un aiuto immediato.
– Cerchi di non bere in questi giorni, il medico la valuterà e deciderà il piano riabilitativo individuale più adatto a lei. Ha fatto bene a presentarsi qui, è già un bel primo passo.
Tornai all’ospedale da Marta, con il mazzo di rose colorate in mano, e la trovai sveglia, vigile e collaborante, con la flebo di fisiologica che scorreva veloce nel tubicino che finiva dentro la sua vena. Era seduta contro lo schienale del letto, tirato appositamente su per permetterle di stare così, e si stava mangiando un budino.
– Dov’eri, mascalzone, credevo che mi avessi abbandonata! Ma che belli, sono per me?
– No, sono per mia nonna. Ma che scema, certo che sono per te! Te li appoggio qua, di fianco al letto.
– Mmm, profumano! Grazie Roby!
– Scusa se ti ho lasciata, volevo essere presente al momento del tuo risveglio, ma non crederai mai a cosa ho fatto.
– Parla! Non tenermi sulle spine! – sembrava un’altra. Da zombie a ragazza espansiva, simpatica, vitale, comunicativa.
– Sono andato al Serd. Mi hanno preso in carico, ho l’appuntamento con il medico in settimana. Mi hanno detto di non bere nel frattempo.
Lei mi fece un gran sorriso e poi allungò le braccia. Io mi avvicinai e ci abbracciammo forte, stretti stretti, con lei che mi sussurrava nell’orecchio – ce la faremo, vedrai. Ѐ stato solo un brutto e lungo incubo.
E io ci credevo. Ce l’avremmo fatta. Ce la dovevamo fare, a tutti i costi.
Scritto da Fabio Serlenga








