Il congressista

Andrea era figlio unico, nato da genitori quarantenni. Una famiglia semplice, il padre impiegato, la madre casalinga. Vivevano in un piccolo appartamento di un caseggiato popolare, posto ai margini di una città di provincia. L’appartamento era al quarto piano di una grigia palazzina senza ascensore e questo rappresentava un problema per i genitori di Andrea, entrambi cardiopatici. Così, lui era cresciuto scendendo e salendo quelle rampe di scale, per alleggerire i loro cuori affaticati. Era molto brillante a scuola e il resto del tempo, durante le lunghe giornate dell’infanzia, lo occupava nelle incombenze domestiche. Tutte le commissioni erano date a lui, perché era serio e affidabile. Un piccolo uomo, mai negligente, sempre presente.
A sedici anni, per aiutare economicamente i genitori, trovò un lavoro serale in un ristorante del centro. Ogni tardo pomeriggio prendeva l’autobus che lo portava nei pressi del ristorante, entrava dalla porta secondaria, si metteva un grembiule e iniziava a lavare piatti, pentole, stoviglie, bicchieri. Terminava in tempo per salire sull’ultimo autobus che ripartiva verso la periferia.
Questa era la sua vita, solo questa. Era benvoluto da tutti, ma non aveva amici, non usciva la sera, passava i fine settimana a casa, a studiare. Andrea aveva le idee chiare, il suo obiettivo era diventare un medico cardiologo. Lo faceva per sua madre e suo padre, voleva saperli curare al meglio.
Dopo il liceo affrontò con slancio la facoltà di medicina. Ultimò velocemente gli esami e uscì, da solo, dall’aula dove si era tenuta la discussione di tesi. Da solo, ma con la lode. Quel giorno freddo, reso brillante da un sole invernale, prese una torta e corse a casa. I suoi genitori lo aspettavano con una bottiglia di spumante. Suo padre scrisse con la biro la data sul tappo della bottiglia con cui brindarono e poi, lo mise nella sua mano, resa ruvida dai detersivi usati nel ristorante. Stringendola teneramente, disse sottovoce
– Conservalo come ricordo. Questo è un giorno importante per te
* * *
Pur se il reparto di cardiologia era molto ambito dai candidati alla specializzazione – era stato nominato da poco come primario un medico appena rientrato da un lungo periodo negli Stati Uniti – lui superò la selezione agevolmente. Era la prima metà degli anni ottanta e gli specializzandi non erano retribuiti. Così, Andrea si divideva tra lezioni, ore in reparto e il ristorante dove si precipitava, quando non aveva il turno notturno, per arrotondare le poche entrate familiari.
Il reparto era soggetto a una riorganizzazione voluta dal nuovo primario che, ogni giovedì, riuniva gli specializzandi per svolgere l’epicrisi di un caso clinico. Sceglieva una cartella tra quelle dei pazienti ricoverati e chiedeva a uno di loro di presentare il caso e di spiegare il perché delle cure svolte e quali erano eventualmente possibili.
Quel giorno Andrea era seduto, come sempre, in disparte. Era sfuggente, etereo, si sottraeva da ogni attenzione, da ogni sguardo. Era l’uomo invisibile. Gli altri specializzandi erano sei, tutti si alzarono prontamente quando entrò in sala riunioni il primario, un uomo alto, distinto, deciso. Con lui c’era una donna raffinata, anche lei in camice bianco
– Buon pomeriggio, vi presento mia moglie Kathleen, anche lei cardiologa. Da oggi fa parte del nostro reparto, le ho chiesto di rimanere con noi per conoscervi. Sarà lei il vostro riferimento. Vi prego di parlare lentamente perché il suo italiano deve migliorare, è americana.
Si sedettero, una bella coppia di medici affermati, con un manipolo di futuri cardiologi. Il primario aveva in mano una cartella, era il caso di un quarantenne affetto da una grave cardiopatia, forse il caso più complesso tra i ricoverati. Il medico diede una scorsa alla cartella, la passò alla moglie che iniziò a sua volta a leggerla con attenzione. Il responsabile li guardò, uno ad uno, soppesando il tempo della scelta e poi indicò Andrea
– Prego dottore, ci illustri questo caso…
Gli altri tirarono un sospiro di sollievo, mentre a lui il cuore iniziò a battere all’impazzata. La dottoressa americana gli porse la cartella con un accenno di sorriso, lui la prese e, tenendola stretta, iniziò a esporre la storia clinica del paziente, il primario lo fermò subito
– Calma, guardi prima la cartella
– Mi scusi, non… non volevo farvi perdere tempo
L’uomo e la donna si guardarono, sorpresi, si scambiarono un lieve sorriso poi lui disse
– Scusi lei, prosegua pure
Parlò per quasi mezz’ora senza essere interrotto. Un fluire preciso che descriveva il paziente, il suo stile di vita, la sua anamnesi, gli esami strumentali svolti, le ipotesi diagnostiche ancora aperte, il perché delle cure avviate e di quelle possibili Quando ultimò l’esposizione nella stanza ci fu un momento di intenso silenzio. Andrea temette di aver parlato troppo, un’ombra di senso di colpa già iniziava a turbarlo, ma intervenne il primario
– Caspita! Davvero bravo. Posso farle una domanda?
– Certo
– Lei è un uomo fortunato?
Andrea lo guardò non capendo, non sapeva cosa dire. Per fortuna, riprese a parlare il responsabile
– Glielo chiedo perché pare che le abbia assegnato un caso che conosce molto bene. O forse, conosce bene anche gli altri ricoverati?
– Beh… sì. Sono nostri pazienti
– Tutti? Li conosce tutti in modo così approfondito?
– No, le due donne ricoverate questa settimana non sono ancora riuscito a visitarle
– Lei non è un uomo fortunato, è solo bravo. Potete andare
Uscirono tutti, il primario e la moglie rimasero seduti, si guardarono a lungo, poi lui disse
– Ci credi? Credi che conosca così bene tutti i ricoverati?
Lei sorrise in modo aperto
– Of course, I try, così come ci credi tu, altrimenti gli avresti dato subito un’altra cartella per verificare. E ti dirò di più, hai scelto di proposito il caso più complicato
– È vero, ormai mi conosci troppo bene. L’ho notato subito, silenzioso, ligio, appassionato. Ma si sottrae, non ama mettersi in mostra. Tienilo d’occhio, perché vorrei conoscerlo. È umile, potrebbe essere una risorsa per noi
La vita del reparto assorbiva completamente Andrea. Spesso si sentiva osservato, alzava lo sguardo e incrociava quello della bella americana, che lo guardava sorridendo. Un tardo pomeriggio, mentre lei era di guardia e Andrea aveva ultimato il suo turno, lo fermò mentre si stava avviando frettolosamente verso lo spogliatoio perché doveva recarsi a lavorare in ristorante
– Andrea, è appena stato ricoverato un paziente che vorrei vedere assieme a te, riesci a fermarti?
Lui la guardò imbarazzato
– Kathleen, mi scusi… non posso fermarmi, devo andare a lavorare
– Lavorare? Ma dove?
– In un ristorante
– Ma, sei un cuoco?
– No, faccio il lavapiatti
– Lavi i piatti? Come mai?
– Sono, siamo una famiglia semplice…
Abbassò lo sguardo, vergognandosi per aver esposto a quella donna le difficoltà economiche in cui versavano lui ed i suoi genitori
– Capisco, vai pure. Lo vedo da sola, ora vai
Venti giorni dopo venne chiamato dalla segretaria del reparto che gli fece firmare un contratto per una borsa di studio che garantiva uno stipendio impensabile sino alla fine della specializzazione. Uscì dall’ufficio amministrativo disorientato, per poco non sbatté sul primario che stava percorrendo il corridoio
– Andrea! Ha firmato?
– Si, grazie. Non ho parole…
– Basta piatti però, lei ci serve qui!
il primario riprese a camminare velocemente lasciandolo lì, commosso. Quella era una chiara promessa: sarebbe diventato un cardiologo di quel reparto.
– A maggio c’è questo congresso a Venezia, sono due giorni di lavori, mi chiedono di portare un caso, ma non riesco ad andarci, qui c’è tanto da fare… vai tu Kathleen?
– Not a chance! Non conosco così bene l’italiano for… dive into a shark tank!
– Quindi? Rinunciamo? Vorrei illustrare come lavoriamo. Anche se siamo ancora una piccola cardiologia, siamo all’avanguardia su molte cose
– Mandiamoci Andrea
– Andrea? Dici che può far bene?
– Certo che può far bene, surely!
Il primario sembrava avere già in testa quella soluzione ma voleva farla dire alla moglie. Era un gioco sottile, un gioco di coppia, intellettuale e raffinato, che saldava per un attimo, in una sorta di unisono, una coppia che rimaneva complice, aldilà delle nevrosi
– Dài proviamo! Il ragazzo mi piace, per lui sarà una prima vetrina
– Andrai tu al congresso di Venezia, preparati
– Ma Kathleen, io? Non ho mai parlato ad un congresso
– No problem, Andrea. Basta che esponi il caso come fai nelle riunioni, hai una naturalezza disarmante, li conquisterai. Will be a success, but… comprati un vestito, una camicia, delle belle scarpe. Insomma, you are an Italian boy!
Così si ritrovò, in una bella giornata di maggio, a camminare per Venezia, dirigendosi verso l’hotel dove si sarebbe tenuto il congresso. Mentre camminava tra la folla, colorata e chiassosa, di turisti, ripeteva mentalmente l’intervento. Ormai quel discorso era diventato un mantra ossessivo. Arrivò all’albergo senza rendersene conto. Quando giunse all’accettazione si mise pazientemente in attesa, ultimo di una lunga coda di persone. Arrivato finalmente il suo turno, disse il nome alla hostess che scorse, più volte, una lunga lista di nominativi
– Mi spiace, il suo nome non c’è
– Ma come? Io dovrei parlare alle dodici e trenta
– Ma… allora, non è tra i discenti, è un relatore?
– Si
– Allora deve andare al banco che dei relatori, più avanti
– Mi scusi…
Venne accolto da altre due hostess con ampi sorrisi, gli fecero firmare alcuni moduli, poi gli consegnarono una borsa con depliant e penne e gli diedero un pass da infilare attorno al collo. Entrò nell’ampia sala gremita, stavano già svolgendo i primi interventi. Trovò posto nelle ultime file. Era emozionato, non riusciva nemmeno a leggere il programma, ripeteva in continuazione il caso clinico che doveva esporre di lì a poco.
Gli interventi di dilungarono, erano le dodici e trenta e doveva ancora parlare la persona prima di lui. Il moderatore chiamò sul palco la relatrice, era una giovane donna. Andrea rimase colpito dal fatto che aveva il suo stesso nome: Andrea. Ma non seguì la sua esposizione, era troppo teso. Ruminava costantemente il suo intervento come una mucca rumina il fieno montano.
Quando finalmente lo chiamarono, camminò con decisione verso il palco. Doveva parlare in piedi, dietro uno scranno con microfono, non aveva appunti, aveva solo se stesso e la sua memoria, almeno così pensava. Invece scoprì, con sorpresa, di avere un suo talento. Magicamente abbandonò il mantra ossessivo, ripensò il paziente del caso, non come paziente ma come persona. Lo tenne idealmente al suo fianco per tutto l’intervento sentendo la sua sofferenza, la sua angoscia, il suo cuore malato. La vasta platea era in silenzio, quasi ipnotizzata dal suo parlare, clinicamente preciso e umanamente coinvolgente. Alla fine dell’esposizione ricevette un lungo applauso, il primo della sua vita. Il moderatore lo ringraziò, poi disse
– Non era facile mantenere l’attenzione della sala prima del buffet, ma i due giovani Andrea lo hanno fatto benissimo. Pregherei tutti i relatori della mattinata di fermarsi in sala per una foto di gruppo prima di recarsi al buffet. Buon pranzo!
Aveva detto proprio così “i due giovani Andrea lo hanno fatto benissimo”.
Fortunatamente la foto di gruppo fu fatta velocemente, tutti avevano voglia di pranzare. Si recò nella sala buffet, c’era una lunga fila in attesa di ricevere il piatto con vari assaggi di pietanze, lui si accodò pazientemente.
Era ancora scosso dalle emozioni vissute durante l’esposizione quando, improvvisamente, avvertì un brivido lungo la schiena, come se alle sue spalle si fosse scatenato un uragano, o una tempesta magnetica e poi, solo un istante dopo, avvertí quel tocco insistente. Si voltò per vedere chi richiamava la sua attenzione e… la vide. Lavide da vicino per la prima volta. Fu un attimo indimenticabile. Era molto di più di una tempesta magnetica, molto di più di una bufera, di un uragano, di…
– Ciao, complimenti! Sei stato proprio bravo, mi è piaciuto molto il tuo intervento
Aveva degli occhi luminosi e un viso semplice, bellissimo
– Grazie, tu… sei quella che… insomma, abbiamo lo stesso nome?
Lei rise mentre, con un gesto infantile, copriva con la mano affusolata i suoi denti bianchissimi
– Sì, sono anch’io Andrea, piacere!
Gli tese la mano con graziosa naturalezza, lui strinse leggermente quella mano come fosse un fiore delicato, temeva di sgualcirla. Non sapeva cosa dire, per fortuna parlò lei
– Anche tu stai per specializzarti in cardiologia?
– Si, anche tu?
Lei rise di nuovo
– Ma come? Non hai sentito il mio intervento? Certo, cardiologia pediatrica
– Scusami, ero talmente emozionato che non riuscivo a pensare che alla mia presentazione
– Bello! Ma perché scusarti? È così tenero…
La fila avanzava lentamente. Andrea si rabbuiò poi si avvicinò a lui investendolo con il suo delicato profumo, sembrava un giardino fiorito. Lei gli sussurrò
– Senti, non ho voglia di mangiare. Ti andrebbe se andiamo a farci un giro per Venezia?
– Certo ma… si può?
Lei rise ancora
– Certo che si può! Chi può impedirlo? Siamo i relatori, i “due Andrea”! Dài andiamo!
Mentre uscivano lei gli tolse dalle mani la borsa congressuale e la mise su una sedia della hall. Poi, improvvisamente, lo fermò, si mise in punta di piedi – era più piccola di lui – e dolcemente gli sfilò il pass. Quando si avvicinò, lui avvertì nuovamente quell’inebriante profumo di fiori. Era confuso, davvero confuso. Andrea gettò i loro pass sulla sedia dove era stata lasciata la borsa
– Ecco fatto, ora non ci conosce nessuno. Sei libero, uomo del medio evo. Basta che ti allenti quella cravatta e poi sei pronto per portarmi a zonzo
In quel luminoso pomeriggio primaverile non seguirono il fiume dei turisti ma attraversarono calli improbabili, corti nascoste, fondamenta inconsuete. Un tour che nessuna guida avrebbe potuto organizzare. Un girovagare istintivo, intimo e scomposto, proprio come dovrebbe essere la giovinezza.
L’esuberanza di Andrea lo investì di domande e lui, disorientato e felice, rispondeva in modo goffo e impacciato. Questo la divertiva, la faceva ridere. La sua risata aperta, cristallina, era per Andrea un balsamo che scioglieva la sua anima. Ogni sua risata gli toglieva il respiro. Un effluvio di emozioni affiorarono in superficie mandando sullo sfondo, fuori fuoco, Venezia. C’era lei, e quel giorno riempiva il suo mondo, spingendolo verso spazi emotivi fertili, vitali.
Il tempo vola quando ci si diverte… recita un vecchio adagio e così, improvvisamente, giunse il crepuscolo che colorò Venezia di teneri toni violacei, quella incredibile giornata stava giungendo al termine. Esausti, rientrarono in albergo.
Nella hall, la borsa e i pass non erano più sulla sedia dove li avevano lasciati. Andrea lo guardò
– A che piano hai la stanza?
– Al secondo
– Io al quarto, mi accompagni?
– Certamente
Quel “certamente” detto con una sicurezza apparente, in realtà apriva un varco emotivo spaventoso. Lui non era mai stato da solo con una donna, non ne aveva mai baciata una, cosa avrebbe fatto? Mentre camminavano lungo il corridoio, il suo cuore era in tumulto. Lei aprì la porta della stanza, poi si voltò e disse
– Grazie Andrea, sono stata bene con te oggi, hai reso Venezia meno melanconica
– Anch’io… anch’io sono stato bene, davvero
– Allora, buonanotte e sogni d’oro
Si avvicinò a lui di slancio e gli diede un leggero bacio sulla guancia, poi si girò e chiuse la porta.
Lui si sentì enormemente sollevato, guardò per un attimo il numero in ottone che aveva davanti agli occhi, era il 443. Il profumo di fiori lo accompagnò fino alla sua camera.
Entrò nella sua stanza in preda ad uno tsunami emotivo, si fece una doccia, si distese ma iniziò a girarsi e rigirarsi nello scomodo letto dell’albergo. Pensava costantemente a lei, al suo viso, al suo profumo, al suo modo di gesticolare e di ridere.
Si accorse che non le aveva chiesto nulla, da quale città veniva, in quale ospedale svolgeva la specialità… nulla, non sapeva nulla di lei. Era stato investito dalle sue domande e si era cullato nell’essere l’epicentro delle sue curiosità. Era bello ricevere delle attenzioni, era bello essere al centro delle sue attenzioni.
Avrebbe voluto sapere molte cose di lei, se ne rendeva conto solamente ora. Pazientemente, visto che il sonno non arrivava, si mise a mettere in fila tutte le domande che le avrebbe posto il giorno dopo.
Il mattino seguente, non appena aperta la sala colazioni, fu il primo ad accedervi e l’ultimo ad uscirne, perché la seconda giornata del congresso stava iniziando e di lei non c’era traccia. La cercò affannosamente con lo sguardo nell’ampia sala, ma non la vide. Aspettò impaziente la pausa pranzo, ma lei non c’era. Vagava con lo sguardo cercandola tra le persone che, raccolte in piccoli gruppi, mangiavano parlando di lavoro ma a lui sembravano solo extraterrestri che l’avevano rapita.
Nel tardo pomeriggio, alla fine del congresso, vinse la sua feroce timidezza e si avvicinò al banco di accoglienza dell’albergo. Il receptionist stava accogliendo un gruppo di turisti giapponesi. Andrea, timidamente, attirò la sua attenzione e quando questi, visibilmente seccato, si rivolse a lui, chiese
– Mi scusi, volevo sapere se la persona che occupa la stanza 443 è ancora in albergo
– Non possiamo dare informazioni sugli ospiti, è una questione di riservatezza
Fu la disperazione a fargli formulare una scusa credibile
– Sono un medico, un relatore del congresso. Una mia collega ha scordato i suoi appunti, volevo solo restituirglieli. Se è ancora qui
L’uomo inarcò le sopracciglia. Seccato, guardò il registro dell’albergo
– Stanza 443 ha detto… no. La persona che la occupava ha riconsegnato le chiavi nelle prime ore della mattinata, è già andata via da tempo
mentre finiva la frase l’uomo stava nuovamente rivolgendosi ai giapponesi in attesa. Lui rimase impietrito. Sentiva già gravare sulle spalle il peso infinito di una sconfinata solitudine.
Lo studio del primario era ampio, la porta era aperta, Andrea bussò delicatamente sullo stipite
– Venga, venga Andrea. L’ho fatta chiamare per due motivi: per prima cosa, volevo complimentarmi con lei. I colleghi mi hanno detto che ha svolto un intervento intenso e molto preciso al congresso di Venezia. Sono molto contento, era un evento importante e lei si è difeso benissimo, bravo. Poi… poi volevo parlarle di una bella opportunità. Ci sarebbe la possibilità di svolgere un master di alta specializzazione al Brigham Hospital di Boston. Si tratta di rimanere lì per due anni, con una borsa di studio che coprirebbe tutte le spese oltre a garantire uno stipendio decoroso. Kathleen ed io abbiamo pensato subito a lei
– No, no grazie
– Perché no? Abbiamo grande stima di lei, delle sue qualità
– No, non posso. Ho dei genitori anziani, non posso lasciarli da soli
– Andrea, mi permetto di dirle che è la sua vita, il suo futuro. Questo sarebbe un trampolino professionale incredibile. Con quel titolo potrebbe ambire a reparti di cardiologia importanti, a una carriera importante
– No, no dottore, la ringrazio. A me basta rimanere con voi e con i miei genitori
– Davvero?
– Si, davvero dottore. Mi spiace deluderla
– Andrea… voglio essere sincero con lei, mi toglie da una situazione imbarazzante. Un mio collega e amico è il padre di Luisa, la sua compagna di specializzazione, ed ha perorato con insistenza la causa di sua figlia, ma Kathleen ed io pensiamo che questa opportunità spetti a lei. Ma, se mi dice di non sentirsela, io accontenterò il mio amico. Sappia però che le sono debitore, quel posto era suo, se lo meritava. Grazie, ora può tornare al suo lavoro
Andrea si alzò prontamente e si avviò verso la porta, ma quando pose la mano sulla maniglia si fermò, guardò il primario e disse
– Una cosa… una cosa vorrei chiedere… se posso
– Dica, ci ha ripensato?
– No, no. Volevo chiederle se ai congressi futuri… potrei andarci io
Il primario lo guardò a lungo, quel giovane aveva qualcosa di bizzarro che lui non riusciva ad afferrare. Rispose di getto, contrariamente al suo stile
– È stato bravo a Venezia. Se lei preferisce la noia dei congressi alla vivacità di un master biennale a Boston, non posso che accettare il baratto. A tutti i congressi alla quale mi inviteranno, andrà lei al mio posto. Così io potrò dedicarmi di più al reparto
– Grazie, grazie mille dottore
Iniziò così il suo girovagare, il calendario dei congressi cardiologici fu la sua terra nomade.
Partecipò a moltissimi eventi professionali durante la sua quasi quarantennale carriera, in molti portò i lavori del suo reparto, diventato un eccellenza grazie alla indomita perseveranza del primario e alla tenacia della sua vice, che altri non era che sua moglie, ma anche grazie alle sue capacità, di medico abnegato e brillante relatore.
I colleghi del reparto, ferocemente invidiosi delle sue doti dicevano che era ammalato di una grave forma di dipendenza, la “congressite”. Ma lo dicevano sempre sottovoce, perché era molto stimato da colei che aveva preso, anni dopo, le redini del reparto dopo il pensionamento del marito. E poi, Andrea era sempre disponibile a concedere cambi turno, a lui bastava andare ai congressi. Non era però come tutti pensavano, non voleva andarci per soddisfare una sorta di narcisismo e, men che meno, per svolgere del turismo congressuale. Insomma, in realtà non era affetto da“congressite”.
Lui andava ai congressi perché la cercava.
In ogni congresso la cercava disperatamente. Quando svolgeva l’intervento pensava solo in minima parte a quanto diceva. Tante erano le sue abilità espositive, che inseriva una sorta di pilota automatico e dedicava tutta la sua attenzione a una scansione dei volti in platea, uno per uno, alla ricerca di lei, di Andrea.
Non era più riuscito ad avere sue notizie. Sapeva solamente che non era stata una sua fantasia, un sogno ad occhi aperti, perché si era fatto recapitare una copia di quella fotografia di gruppo. Quella foto, che allora visse come una formale seccatura, era diventata il suo unico punto di contatto con la realtà. Lei era esistita davvero e aveva passeggiato al suo fianco a Venezia. Quando nella nostra quotidianità irruppero gli smartphone, Andrea scannerizzò la foto di gruppo, ne ritagliò la parte con Andrea sorridente e la impostò come salvaschermo del cellulare.
* * *
Passarono gli anni, molti anni, senza mai fermarsi, ma nessuna traccia di lei. Ormai era un medico in età, stempiato e con gli occhiali, prossimo alla pensione. Abitava nella piccola casa dei suoi genitori che lo avevano lasciato da tempo, nonostante le sue abilità cardiologiche. Lui era rimasto solo, in quel piccolo appartamento dove tutto gli ricordava tutto, perché non aveva toccato nulla, come se i suoi fossero ancora vivi, ad aspettarlo per cena ed ascoltare i suoi racconti sul reparto.
Si recava spesso al cimitero con dei fiori freschi. La preghiera che faceva sottovoce, davanti alla loro tomba, continuava ad essere sempre la stessa
– Vi prego, fate in modo che possa ritrovarla, che possa rivederla al prossimo congresso. Sì al prossimo…
Così fluì la vita di Andrea, tra la corsia del reparto e le cento e più città, le cento e più sale congressuali, i cento e più alberghi dove alloggiò, le cento e più stazioni e aeroporti dove rimase in attesa di treni e aerei sempre uguali, intristiti dalla mancanza di lei, da un’assenza che diventava sempre più ossessiva quanto più il tempo lo allontanava da quell’ormai lontano pomeriggio veneziano.
Nei momenti più difficili, che corrispondevano all’ennesima delusione per non averla rivista, si appartava in un angolo e guardava la sua foto sullo smartphone. Rivedere quello sguardo, quel sorriso, quei capelli gli permetteva di superare quell’acuto momento di delusione e di raccogliere nuovamente l’entusiasmo per prepararsi al prossimo viaggio, al prossimo congresso. Una corsa senza fine, alla ricerca spasmodica dell’unica persona della sua vita da cui si era sentito visto davvero.
Ci fu un lungo periodo di crisi, quando piombò su tutti, improvvisa, l’ombra pandemica. I congressi in presenza vennero sospesi per quasi due anni. Negli eventi formativi svolti a distanza si vedevano poco, se non per nulla, i volti dei partecipanti.
In quel periodo Andrea divenne molto irritabile e insonne. Il pensiero di lei divenne continuo, intrusivo. Non riusciva più a concentrarsi sul lavoro e, per lenire l’angoscia di non potersi concedere una opportunità per cercarla, assunse considerevoli dosi di ansiolitici. Iniziò a pensare che non l’avrebbe più rivista. Questo lo rendeva disperatamente debole, infantile, incapace di reggere la minima frustrazione. Ma poi, dopo quel periodo molto buio, il virus mutò e la società riprese il suo coraggio di vivere. Non appena ripresero le attività formative in presenza, lui si ritrovò nelle vesti del cardiologo ligio e determinato e si dimenticò, quasi spontaneamente, dei farmaci che assumeva per sedare l’ansia.
* * *
L’ex primario era ormai anziano, forse più introverso, sicuramente più umile. Aveva riposto l’ascia di guerra, non era più animato dal carrierismo e le sue nevrosi avevano lasciato spazio a una pacata saggezza. Mentre ultimava di preparare la cena chiese, con finta noncuranza, alla nuova responsabile, appena rientrata da una lunga giornata di lavoro
– Come vanno le cose in reparto?
Kathleen, pur se ancora bella e raffinata, sul suo viso mostrava in filigrana i segni di chi viene esposto, per anni, alla sofferenza. Il dolore altrui logora, un fiume carsico che lambisce costantemente la consapevolezza della nostra caducità.
Kathleen padroneggiava ormai bene l’italiano anche se, talvolta, usava ancora degli idiomi della sua lingua madre
– I’m so afraid, sono addolorata e preoccupata per Andrea. Ormai mancano pochi mesi al suo pensionamento e lo vedo sempre più strano, cosa farà della sua vita senza il reparto?
– Devo dire che non sono mai riuscito a capirlo… un medico così brillante. Avevo addirittura pensato che il suo voler andare ai congressi coprisse qualche strana liason, magari con una collega maritata
– Mah! Questa è proprio una fantasia maschilista! Non lo hai visto? È solitario come l’astronauta di “2001 Odissea nello spazio” a cui è stato reciso il cavo che lo collega alla navicella…
– Sì, però c’è qualcosa di sfuggente in lui, qualcosa intimo, di solo suo…
– Su questo sono pienamente d’accordo. È criptico, inaccessibile, sembra avere un segreto. Ultimamente è peggiorato, si presenta disordinato nell’aspetto, malvestito, spettinato. Temo che il pensionamento potrebbe fargli mancare il reparto, forse il suo unico contatto con la realtà. E poi, come se non bastasse, sono preoccupata perché devo farlo affiancare da qualcuno. Al prossimo congresso di Venezia sono intenzionata a mandare con lui i due medici neo assunti. Sono ragazzi svegli, voglio che vedano come lui si pone negli eventi congressuali perché in questo è sempre molto bravo
– Beh, nell’esporre è sicuramente un maestro, non possono che imparare… povero Andrea, cosa farà senza i suoi congressi?
Il primario aveva versato un pò di vino bianco in due calici eleganti. In attesa della cena, fecero un brindisi composto scambiandosi uno sguardo che rivelava una avvertibile tristezza, quasi un presagio.
Scesero dal treno alla stazione di Venezia in perfetto orario. Andrea camminava spedito seguito dai due giovani colleghi. La sede del congresso era situata in un istituto universitario. Era visibilmente contrariato, viveva i due giovani colleghi come due intrusi. Ogni ritorno a Venezia faceva riaffiorare in lui ricordi intimi, inviolabili, che lo travolgevano emotivamente come lunghe onde di risacca.
Arrivarono puntuali, prima dell’inizio dell’evento formativo. Non sapeva quando avrebbe dovuto parlare, non aveva nemmeno scorso il programma del congresso. Aveva preparato l’intervento sul tema che gli era stato assegnato rimanendo in un’attesa piacevole e dolorosa di quella che, per lui, era una sorta di estrazione della lotteria: lei ci sarebbe stata oppure no? Erano ormai innumerevoli i congressi che lo avevano lasciato affranto e deluso.
Quel giorno, iniziò a guardare una ad una le persone già sedute nell’ampia sala gremita intriso dallo stesso fatalismo con cui una persona controlla il numero del suo biglietto della lotteria nazionale. Era pronto all’ennesima delusione, all’ennesima conferma di una vita dedicata alla condanna dell’attesa.
Ma, improvvisamente, il moderatore disse quelle parole, scandite dentro un microfono che arrivava direttamente al timpano della sua anima, trasformando repentinamente quell’onda d’urto in un terremoto interno
– È con grande piacere che invito a svolgere l’intervento di apertura la professoressa Andrea Meier, cardiologa pediatrica svizzera, nota per la sua lunga esperienza in diversi ospedali per l’infanzia africani. Nella pausa, sarà lieta di autografare le copie del suo libro sulla sua difficile esperienza. Il volume può essere acquistato nella sala dove è prevista la pausa caffè. A lei la parola dottoressa Meier…
Andrea vide camminare verso il palco una figura femminile esile, con un incedere che era quell’incedere deciso e delicato nel contempo, lo stesso incedere che aveva la giovane donna che aveva passeggiato al suo fianco nelle calli veneziane.
Andrea, Andrea ora aveva un cognome, era svizzera, aveva svolto la sua carriera in un altro continente, in giro per il mondo. Se avesse avuto il coraggio di andare a Boston forse… ma interruppe i suoi tumultuosi pensieri quando lei iniziò a parlare, solamente allora, nel silenzio religioso che era sceso nell’ampia sala gremita, trovò il coraggio di osservare, pur se da lontano, il suo volto.
Era un volto magro, leggermente scarno, incorniciato da una nuvola di capelli grigi raccolti in una crocchia elegante. Il suo sorriso era rimasto inalterato, aperto, vitale, contagioso, così come la sua voce era ancora brillante anche se non più così allegra. Il tempo erode anche le pietre più dure… pensò Andrea assorto nel guardare quell’immagine tanto attesa, quella immagine sacra riapparsa miracolosamente nello stesso luogo di tanti anni prima… il miracolo di Venezia.
Ultimato l’intervento l’uditorio liberò un prolungato applauso e una parte della platea si alzò entusiasta. Andrea scese, dopo aver risposto a una pioggia di domande e si recò al banchetto con i libri, posto nella sala buffet, ma ben visibile dal palco.
Lui fu chiamato subito dopo, proprio come allora, ma il moderatore non fece alcun gioco di parole sui due nomi uguali, ormai erano grandi, forse vecchi, e poi, in sala prima aveva parlato Andrea e ora avrebbe parlato andrea. Una equazione asimmetrica come furono i due interventi, il primo svolto da una relatrice famosa e appassionata e il secondo fatto da un relatore distratto, più attento a guardare il banchetto dove Andrea autografava copie dei suoi libri, che a quello che stava dicendo. Era un combinato disposto che non poteva esitare che nel suo intervento peggiore.
L’animazione attorno ad Andrea ed i suoi libri spinse il moderatore ad anticipare la pausa caffè non appena ultimato l’intervento di Andrea, del nostro Andrea.
Lui si accodò alla lunga fila di persone che attendevano di comperare il libro e di farselo autografare dall’autrice. Nuovamente in fila, in attesa, in un congresso a Venezia… ma allora era in attesa con Andrea mentre oggi era in attesa per Andrea. La differenza stava in un semplice cambio di preposizione, in un banale errore che poteva fare una persona che apprende una nuova lingua ma che per lui rappresentava un cambio di prospettiva, inatteso e drammatico.
Mentre era in fila la osservò da vicino, con attenzione, era ormai a pochi metri da lei. Vide le mani con le unghie non laccate e con qualche anello, forse anche una fede nuziale. Vide l’ampio foulard colorato che le avvolgeva il collo sottile. E poi, incrociò il suo sguardo, fu un attimo, breve ma intenso. Lo sguardo distratto di lei si fermò sul suo volto, su uno dei tanti volti che la circondavano e lui capì. Andrea capì che Andrea non l’aveva riconosciuto. Lui, per lei, non era nulla. Forse, in quel pomeriggio di tanti anni fa, era stato un piacevole e composto passatempo, ma sicuramente oggi non raggiungeva nemmeno la dignità per essere un ricordo, nemmeno un brandello di immagine nella memoria. Quell’attimo, quello sguardo, aveva fatto irrompere la realtà dentro la capsula ultra trentennale della fantasia e questo fece crollare fragorosamente tutto.
Aveva in mano una copia del libro, lo aveva appena acquistato al banchetto, “Cuori abbandonati” era il titolo in caratteri rossi che si sovrapponeva a una immagine di bambini africani sorridenti. Cuori abbandonati… cuore abbandonato… uscì dalla fila, prese con decisione l’uscita della sala, lasciò su una sedia la valigetta congressuale e la copia del libro di Andrea mentre i due giovani medici, che erano venuti con lui al congresso ed erano in attesa per farsi autografare il libro, si guardarono con aria interrogativa, stupiti dal suo comportamento bizzarro.
Girò per tutta Venezia, era irato, con Andrea, con se stesso, con il mondo. Camminò incessantemente per tutto il pomeriggio, senza meta, senza finalità, mentre il flusso dei pensieri si faceva sempre più vorticoso, sempre meno lucido. Poi, verso sera, ricordò miracolosamente l’orario del treno per ritornare a casa.
Si recò in stazione, ma raggiunta la banchina, in attesa del treno, non riusciva a tenere i piedi fermi, non riusciva a contenere quella frenesia che lo aveva assalito. Mise le mani in tasca, quasi un automatismo, e guardò lo schermo dello smartphone, apparve la foto di Andrea, Andrea di tanti anni prima, la sua Andrea, quella che aveva lasciato tutto per passare un pomeriggio con lui.
Osservando la foto si convinse che la dottoressa Meier non era Andrea, era un impostore che gli aveva rubato il nome, gli aveva rubato le mani, gli aveva rubato il sorriso. Questo pensiero lo acquietò e i piedi finalmente si fermarono. Iniziò a carezzare dolcemente, con il pollice della mano destra, il volto di lei, piena di vitalità giovanile, che appariva come salvaschermo sul suo cellulare.
Nel frattempo, i due giovani medici avevano preso posto sul treno, erano seduti uno di fronte all’altro e parlavano del congresso
– Oggi non ho visto molto presente il nostro “congressista”
– Sì, anch’io lo pensavo più carismatico. Ero curioso, tutti mi avevano parlato molto bene di lui, un medico bravo ma eccellente come relatore
– Dobbiamo ammettere che non aveva un compito facile, prima di lui parlava quella Meier… lei ha stregato tutti
– Vero! Oltremodo, gran bella donna. Quando mi sono fatto autografare il libro mi ha fatto un sorriso che mi ha stordito… da giovane deve essere stata bellissima
– Sì, una donna per cui perdere la testa… ma, dimmi una cosa, dopo anni di reparto noi faremo quella fine lì?
dicendo questo indicò Andrea che, ancora in piedi sulla banchina a fianco del treno sembrava sorridere e parlare da solo mentre guardava il suo smartphone. L’altro si voltò a guardare Andrea e poi disse al collega
– Magari no…
mentre diceva questo il treno si mosse e poi partì, i due giovani si alzarono in piedi per cercare di chiamarlo, ma ormai il convoglio si era messo in movimento. Lo guardarono scomparire mentre continuava a guardare lo schermo del telefono senza nemmeno accorgersi che il treno si stava lentamente sfilando, prendendo la via di casa senza di lui.
* * *
Dopo quel giorno e per alcuni anni, tra gli emarginati e i senza tetto di Venezia girava insistentemente una voce, forse una leggenda metropolitana, che diceva:
“Se stai male vai in stazione dei treni e cerca il cardiologo, lui ti visiterà e ti dirà cosa fare. In cambio, non vuole soldi ma solo una cosa, che tu gli ricarichi il telefonino”
Poi, un giorno, questa voce si dissipò, come una manciata di sabbia nel vento, forse a conferma che anche le leggende, come le nuvole, non si fermano mai.
Scritto da Alessandro Vegliach