Una storia proibita

“Ma ragazzi, nella vita a voi non è mai capitata la tentazione di buttare via tutto per amore?”
L’atmosfera è quella rilassata e sonnolenta delle prime ore dopo mezzanotte.
Nel salotto, raccolti davanti a un camino, si sono riuniti gli uomini della compagnia, una volta esauriti i brindisi, gli scambi di baci, abbracci e auguri per il nuovo anno appena iniziato.
Un bicchiere in mano, lo sguardo un po’ perso tra le fiamme guizzanti, la testa pesante per la cena, le chiacchiere, i prosit, qualche accenno di danze, e l’ora tarda, mentre le consorti ciacolano tutte insieme in un’altra stanza, come per una tacita intesa i maschi si sono radunati qui, slacciando a un tempo i buchi delle cinture e qualche freno nel cervello.
Risatine da più parti.
L’età media è avanzata, prevalgono i capelli grigi, c’è un’aria di lunga consuetudine e cameratismo.
Tuttavia la domanda è piuttosto indiscreta.
“Perché lo chiedi?”
Il proponente alza le spalle, con aria fintamente indifferente.
“Perché è capodanno, si possono ben fare dei bilanci, all’età in cui siamo arrivati…”
Altri sorrisi, un po’ maliziosi.
“Tu ne avresti uno da fare, per esempio? Sei in crisi, Valerio?”
Il nominato Valerio, autore della richiesta indiscreta, si gratta la testa.
“Be’ amici…” esordisce con voce incerta, “stavo rimuginando che a questo punto della vita, quasi al capolinea, se ci si guarda indietro si intravedono meglio i contorni di tanti crocevia dove il nostro treno ha imboccato un binario piuttosto che un altro; e ti rendi conto che a volte sarebbe bastato poco, ma davvero poco, perché, a prescindere da circostanze che sono al di fuori della nostra volontà, la tua esistenza prendesse improvvisamente una piega differente, se solo avessi deciso in modo diverso…”
Silenzio assorto.
Poi una voce ridanciana un po’ annebbiata dal vino:
“O hai letto troppi romanzi… per esempio, quel francese con cui ci scassi sempre i maroni, come si chiama? Ah, sì: Simenon.
O leggi troppo, Valerione, o non la conti giusta…”
L’atmosfera si alleggerisce di colpo.
“Eppure” riprende inaspettatamente il discorso una voce seria dalla parte opposta “eppure Valerio ha ragione. Al di là delle vicende personali di ognuno di noi, è vero che spesso crediamo di camminare su una via sicura, che non sbanderà; siamo certi di noi stessi, delle nostre scelte. E invece, alle volte, di colpo…”
“Oh va’ là Faustino” prorompe il buontempone di prima. “Cosa diavolo vuoi farci credere?
Proprio tu?…”
L’amico sorride, bevendo un sorso di spumante ormai tiepido.
Quindi decide di buttarsi.
“Eh sì, amici cari. Proprio io. E sapete, non l’avrei mai detto.
Attenzione” mette le mani avanti subito dopo con aria decisa, rizzandosi sulla poltrona “non è successo niente, eh? Sia ben chiaro. E sia ben chiaro che tutto quello che vi dico resterà qui tra noi. Ok?
Del resto…”
Nessuno ride più, ora. La faccenda si è fatta seria.
Ma come: Fausto? Il più posato tra tutti loro? Un professionista che ha speso l’intera vita lavorativa in mezzo a tossicodipendenti, alcolisti e malati di mente? Un riferimento per equilibrio, ragionevolezza, senso della famiglia, moglie e due figli ormai grandi fuori dal nido?
“Stai scherzando?” fa eco Valerio.
“Perché?” replica calmo l’altro. “Per motivi tuoi hai fatto una domanda spinosa; poi ti sei tirato indietro e te ne sei rimasto a vedere che effetto faceva. O la lasciamo cadere, come uno scherzo di capodanno, o la prendiamo sul serio, e allora ognuno dovrebbe rispondere per quella che è stata la propria esperienza. Non credi?”
Valerio ridacchia, poi alza le mani: “Ok ok” fa, in segno di resa. “Non vorremo litigare il primo dell’anno! Se vi va, d’accordo, va bene. E vi dico subito che a me in effetti è capitato: poi, come ha detto Fausto, il mio treno ha scelto il binario diritto, ma c’è stato un lungo momento in cui non sapevo davvero come sarebbe finita. Ripensandoci adesso, magari mi sono perso qualcosa…
Però sentite” riprende dopo un attimo “io mi impegno e vi giuro che racconterò quel che mi è successo, e spero facciate così anche voi, se avete qualcosa da dire; ma mi piacerebbe tanto ascoltare prima Faustino…
Sai” prosegue fissando premurosamente l’amico “è una gran consolazione sapere che perfino a te…”
“Vero vero” fanno in coro gli altri, incuriositi e sollevati dalla dilazione che viene in questo modo accordata alla loro ‘confessione’, qualcuno probabilmente contando sul fatto di scamparla se le cose andranno un poco per le lunghe…
“Ci stai?”
Fausto vuota il bicchiere, lo posa, e poi con una smorfietta accetta, con fare rassegnato: “Dato che sono stato così stupido da propormi per primo…”
Si appoggia per un momento allo schienale della poltrona, e quindi comincia a raccontare, mentre il fuoco crepita rosso e vivace dentro il camino.
“Non è successo niente di concreto, vi ripeto. Per fortuna…
Ma c’è stata una occasione in cui ho potuto misurare davvero quanto sia sottile, in ogni relazione che si instaura con gli altri, il velo che separa e caratterizza l’aiuto, la partecipazione, l’empatia professionali e umane da un coinvolgimento emotivo che, se non stai attentamente in guardia, ti può sorprendere e travolgere all’improvviso. Specie se arriva in un momento magari già di debolezza e fragilità… E’ come un rivolo d’acqua che si insinua poco a poco sotto le porte, e se non te ne accorgi in tempo diventa all’improvviso un torrente che travolge tutto senza scampo. Ti rendi conto che il tuo mondo, che hai costruito mattone su mattone durante un’esistenza intera, può essere trascinato via in un attimo come un fuscello. Il treno ha preso lo scambio sbagliato…”
(O quello giusto, pensa qualcuno. Ma nessuno osa interrompere)
Un sospiro, gli occhi semichiusi persi nei ricordi.
“Pareva un gattino selvaggio e impaurito, quando ce l’hanno accompagnata in ambulatorio.
Una madre inviperita, e un padre, separato, che se n’era rimasto fuori dal servizio a fumare per tutto il tempo, e solo a colloquio terminato aveva accettato di farsi intervistare a parte, declinando sgarbatamente ogni responsabilità: designava ogni volta la ragazza come ‘prodotto’ educativo della moglie (‘sua’ figlia), tanto da farci dubitare per qualche momento che l’avesse riconosciuta solo a posteriori, e non ne fosse realmente il genitore. Insomma, quando discutemmo in équipe, la decisione unanime fu di assegnare il caso a me. Come case manager…”
Risatina.
“’Tu, con la tua figura paterna…’
Era vero. Sante e puttane, giovani e meno giovani, attiravo soprattutto le figure femminili, perché, secondo i colleghi, e le colleghe, trovavano nella mia persona un porto sicuro, una comprensione e una solidarietà che non tracimava mai, che le rispecchiava senza giudicarle ma anche senza fare sconti, e alla fin fine le aiutava a risollevarsi, ad aderire ai trattamenti, a ripartire.
‘Ce la puoi fare solo tu…’
E certo, un po’ mi lusingava, questo ruolo. In effetti mi ci trovavo bene. Qualcuna tra le pazienti me lo diceva pure: magari scherzavano, mi facevano perfino gli occhi dolci, ma sapevano che con me non c’erano pericoli di sorta.
Quindi, va bene, prendiamoci anche il gattino selvaggio…”
Fausto a questo punto sente il bisogno di bere un altro sorso di spumante. Uno degli astanti gli porge la bottiglia mezza piena.
“Mettiamo che si chiamasse Cinzia, va bene? Non è il suo vero nome, anche se non fa niente…
Cinzia avrebbe potuto essere mia figlia: una gazzella di diciott’anni, poco più, alla disperata ricerca di una figura maschile di riferimento.
Era bellissima. Non esagero. Una modella.
Forse la più bella ragazza che avessimo mai avuto tra le nostre pazienti.
Bellissima quanto disgraziata. E le disgrazie, che partivano dalla sua famiglia, minacciavano di rovinare per sempre anche la sua bellezza: se ne scorgevano già le tracce, lo sciupio di tanta grazia di Dio, nei segni sulle braccia, che non faceva nulla per nascondere, le mani arrossate, le unghie trascurate; ma, soprattutto, le ombre sotto gli occhi, la pelle del viso tirata, le labbra screpolate, e quegli immensi occhi azzurri oscurati da un perenne velo di rabbia e tristezza.
La madre, impegnata tutto il giorno in un lavoro libero professionale, ce l’aveva trascinata lì pretendendo risposte celeri, una Comunità o che altro; nel frattempo cercava di tenerla chiusa in casa, sotto la sorveglianza di badanti straniere che lei si faceva facilmente complici, gabbando la signora con banale facilità. Il padre, dopo la prima volta, non si fece più vedere: a detta della moglie, si informava di tanto in tanto sulla vita della figlia, minacciando che se ‘lei’ non l’avesse messa a posto ci avrebbe pensato lui, senza andare troppo per il sottile. In che modo, non scoprimmo mai…
Agli appuntamenti, era difficile si presentasse se non accompagnata dalla madre. Anche se poi ai colloqui entrava da sola.
E fu in uno di questi colloqui che, all’improvviso, mi accorsi che stava per cambiare tutto…”
Fausto si passa una mano sul viso, prima di proseguire. Getta un’occhiata di sbieco, verso il salotto dove stanno le signore. Quindi, rassicurato, riprende a raccontare, con voce un po’ più bassa.
“Dovremmo sempre essere consapevoli, quando si fanno mestieri come il mio, attività che poggiano sulle relazioni di aiuto, di quale posizione si occupa in quel momento rispetto ai nodi cruciali della propria vita. Per appoggiare qualcuno, specie in situazioni e rapporti così delicati come quello che si stava delineando nei confronti di una ragazza come Cinzia, bisogna essere in condizioni particolarmente solide. Ma non sempre lo si è, e spesso senza esserne pienamente coscienti.
In quel periodo, io e mia moglie stavamo sperimentando la situazione del ‘nido vuoto’: i figli si erano involati, sia pure ancora per studio, lontani da casa; e noi, da un giorno all’altro, ci eravamo trovati soli soletti uno di fronte all’altra, a vent’anni (più o meno) di distanza da quando ci eravamo sposati.
Con Giulia abbiamo avuto un fidanzamento piuttosto lungo, senza convivenza però, e dopo il matrimonio siamo rimasti da soli per poco più di un anno. Dopodichè la nostra vita ha preso a girare intorno ai piccoli, arrivati a distanza di poco tempo uno dall’altro.
Ora, dopo vent’anni non è che riprendi a fare la coppietta come niente fosse, no? Lo sapete anche voi. Il lavoro, tante cose, l’età… Anzi, la mezza età.
Insomma: come descrivono anche i sacri testi, mi trovavo in uno dei momenti critici della vita, quegli snodi che possono ben essere paragonati agli scambi di binari di cui parlavamo prima.
Con Cinzia non riuscivamo a fare molti progressi: troppo complicati gli intrecci famigliari, un sistema bloccato, patologico, che sembrava chiedere aiuto ma in realtà faceva di tutto perché niente si muovesse, e tutta la colpa ricadesse sulla ragazza. I genitori erano separati, ma interagivano continuamente tra loro, con la ‘scusa’ dei problemi della figlia, gettandosi reciprocamente fango addosso ma, così facendo, negandosi vicendevolmente in realtà ogni mossa libera.
E Cinzia si comportava di conseguenza, ripetendo i comportamenti disfunzionali che l’avevano portata da noi, non solo in materia di sostanze e alcol, ma anche di relazioni tossiche, continuamente rinnovate nel medesimo stile patologico.
In breve, eravamo giunti al convincimento che ci volesse davvero un intervento di Comunità: non tanto per risolvere tutti i problemi, come volevano credere i genitori, quanto per allontanare la ragazza dal proprio ambiente, farle sperimentare rapporti umani diversi, fornirle un periodo di stacco e riposo, in modo che potessero emergere in un ambiente protetto tutte le sue problematiche, per iniziare a lavorarci su. E sperare in bene…
In quel famoso colloquio, fui incaricato di comunicarle la nostra decisione.
Fino a quel momento, durante i tira e molla della sua situazione, avevo avuto l’impressione che in me vedesse un rifugio neutro; come le altre, un porto abbastanza sicuro dove riparare dai suoi disastri quotidiani, un’oasi di pace seppure incerta e vissuta sempre con un po’ di diffidenza.
Quel giorno invece lessi nel suo sguardo un’altra cosa: si manifestò dentro i suoi occhi la paura nera dell’ennesimo abbandono, e questo me lo aspettavo; ma contemporaneamente mi parve di cogliere l’improvvisa consapevolezza che quella instaurata tra noi non fosse una semplice relazione di aiuto, e nemmeno un rapporto di protezione, tipo padre e figlia adottiva. No, l’impressione era che avesse assunto i caratteri inconfutabili di un legame tra donna e uomo, emerso alla coscienza nel momento in cui veniva annunciato che la magia nascente si doveva spezzare…”
Fausto guarda in faccia gli amici, uno per uno. Poi continua:
“Era giusto quel che leggevo negli occhi della ragazza? O non piuttosto una proiezione di ciò che all’improvviso avevo avvertito io, comunicandole la necessità del distacco?
Dove stava la verità?
Da tempo quel caso, tanto per usare una dicitura professionale, aveva cominciato a ossessionarmi. Non potevo, capite, non potevo permettere che una simile fiamma di splendida gioventù si insozzasse ogni giorno che passava, o -peggio- rischiasse di spegnersi nel buco nero di una di quelle tragedie annunciate che purtroppo si leggono troppo spesso nelle cronache di nera. Me la sentivo a carico.
I colleghi si erano già accorti di quel peso, qualcuno cominciava a dire che forse ero troppo coinvolto, che avevo bisogno di una mano, se non addirittura di essere sostituito, benchè quest’ultima ipotesi sembrasse troppo rischiosa per il pericolo di perdere l’aggancio con la ragazza.
Quanto pesava tutto questo sul modo in cui mi rapportavo con lei in quei giorni?
Tutto ciò mi passò per la testa in un attimo. Poi lei si mise a piangere, e questo permise di riportare il colloquio ai termini più concreti e prosaici del tentativo di convincerla che un periodo di clausura residenziale costituiva un’ineluttabile necessità, se volevamo davvero affrontare con speranza di successo la sua penosa situazione.
Ma, amici miei, il momento cruciale che mi trovai ad affrontare nella storia con Cinzia venne qualche giorno appresso, al rientro dal primo colloquio presso la Comunità dove, insieme a una collega, avevo accompagnato la ragazza.
Era andato anche piuttosto bene, l’incontro con gli operatori, debitamente preparato e altrettanto delicatamente condotto e realizzato con rigore. Cinzia pareva abbastanza serena, sebbene ovviamente piuttosto timorosa per l’ingresso in struttura, previsto fra una settimana.
Lasciammo la collega a poche centinaia di metri dall’abitazione della ragazza, essendo sulla strada, motivo per il quale dopo pochi minuti mi ritrovati da solo con lei davanti al portoncino della sua abitazione.
‘Vieni su un momento’ mi invitò con tono naturale, ‘così possiamo parlare già con mia madre. Ci terrei…’
La giudicai una richiesta ragionevole, così la seguii dentro l’appartamento, violando la più elementare delle regole di comportamento: mai fare visite domiciliari da soli, specie in situazioni delicate come questa.
Mi resi conto dal primo momento che la madre non era in casa, e che Cinzia questo lo sapeva bene. Una volta chiusa la porta alle spalle, finse, malissimo, di stupirsi che la mamma non fosse ancora rientrata; disse che non poteva certo tardare, e mi invitò con fare innocente a sedermi un momento.
Mentre cercavo una via d’uscita che salvaguardasse tutti e due, e soprattutto il nostro rapporto terapeutico, mi si parò improvvisamente di fronte sfilandosi il golfino, e scoprendo in tal modo l’abito succinto che aveva indossato per l’occasione. Intanto mi fissava dritto negli occhi.
Questa volta non potevo sbagliarmi: quello era lo sguardo di una donna innamorata. O che, almeno, fingeva di esserlo.
Mi bloccai, mentre lei accennava ad andare avanti nello spogliarsi.
Ci sono attimi, cari amici, dove tutta la vita ti passa davanti; non si tratta soltanto di quelli che- come dicono- precedono l’addio fatale. No no: ce ne possono essere altri. Momenti in cui ogni cosa che hai costruito, tutte le tue convinzioni, tutte le fondamenta su cui hai poggiato la tua esistenza vengono improvvisamente scossi, messi in gioco, impallidiscono come fantasmi, e tu ti ritrovi solo di fronte all’abisso, col vento alle spalle che spinge giù.
Sono momenti in cui istinti e ragione vengono a conflitto estremo.
Devi fare una scelta all’istante. Non ti puoi nascondere: di fronte hai il te stesso più autentico che chiede: da che parte vuoi stare?
Qualsiasi scelta tu faccia, non potrai tornare indietro.
In quel momento davanti a me si parava di colpo il bivio: cosa vuoi buttare dalla torre? Quello che sei stato finora, con la famiglia, il lavoro, l’etica, tutto ciò che hai sempre pensato e in cui hai creduto tenacemente… o un altro che potresti improvvisamente diventare? Che non hai mai avuto la ventura di essere, o perché non l’hai voluto, o perché non ci hai mai pensato?
Non hai tempo. Da che parte vuoi andare?”
Nuova pausa. Di là il chiacchiericcio femminile si è alzato di tono, segno che forse tra poco finirà. Fausto deve sbrigarsi a concludere il racconto, esattamente come allora aveva avuto solo un secondo per decidere cosa fare.
“Qualcosa si mosse dentro di me, qualcosa di cui non fui nemmeno cosciente sul momento.
Fu il modo in cui la guardai, lo capii un istante dopo.
Invece che da uomo infatuato, forse innamorato, che senza rendermene bene conto ero stato fin’allora, la ragione finalmente rischiarata me la fece vedere per quel che era, e che forse non aveva in realtà mai smesso di essere, perché solo io mi ero illuso: non una donna seduttrice in cerca dell’uomo con cui allacciarsi, ma una bambina appena cresciuta che tendeva le braccia verso un padre da cui correre.
Fu il turno suo di bloccarsi.
Lasciò cadere i lembi del vestito con cui aveva cominciato a cincischiare, e gli occhi si velarono di lacrime. Mi tese davvero le braccia, e allora io potei stringerla un lungo momento al petto, commosso, sentendola singhiozzare sotto le mie mani. Tutti e due ora eravamo liberi, non c’era più nessun equivoco, potevamo riprendere la nostra relazione di aiuto senza ostacoli.
Il treno era passato: il binario su cui lo scambio lo aveva indirizzato correva diritto senza più incertezze, in perfetta continuità con quelli che lo avevano preceduto.
Le dissi: ‘Non ti abbandoneremo. Tu meriti molto più di questo’, indicando i segni sulle braccia, e il corpo troppo magro e sciupato. Lei faceva segno di sì con la testa, e adesso era in tutto e per tutto come una figlia…”
Le donne si stanno avvicinando.
Fausto è tutto un bagno di sudore.
Valerio sussurra in fretta: “E come è andata a finire?”
“Forse quelle scossa emotiva operò come un detonatore, su di lei” risponde sottovoce Fausto. “O forse era destino che si sbloccasse, ad un certo punto.
L’inserimento in Comunità, avviato qualche giorno dopo, andò a buon fine. La seguimmo lungo tutto il percorso. Al termine lei scelse saggiamente di non tornare a casa, ma di seguire i programmi di reinserimento della struttura presenti in loco…”
“Di cosa stavate parlando? Andiamo? E’ tardi…”
Le mogli hanno fatto irruzione nel circolo maschile, rompendo l’atmosfera.
“Cose da uomini” fa pronto Valerio. “E voi?”
Spallucce e risatine.
“Cose da donne…”
(vuoi vedere che…)
“Veniamo subito.”
“Ok, vi aspettiamo di là…”
C’è ancora un attimo per concludere il discorso.
“Non sono stato del tutto sincero. Vi ho raccontato la mia storia” riprende Fausto “perché ho rivisto per caso Cinzia, pochi giorni fa…”
“Ah, ecco” esclamano in molti. “Ci pareva che, tra tutti, proprio tu ti prendessi la scena per primo! Tra l’altro, la prossima volta che ci vediamo tocca agli altri, eh, non ci dimentichiamo.
E comunque, Fausto: l’hai incontrata. E allora?”
L’uomo si alza, scuote i pantaloni, si raddrizza.
“E allora niente. Mi ha fatto una certa impressione.
Non ne avevamo più saputo nulla, dopo le sue dimissioni, se non che pareva bene inserita.
Me la sono trovata davanti in un Centro commerciale: spingeva un passeggino con dentro un bel bambino biondo…”
“Ah però!”
“Be’, già, sono passati un po’ di anni…”
“Vi siete fermati a parlare?”
“Sì, certo. Ci siamo abbracciati, scambiati due baci. Mi ha raccontato di sé, il compagno, il lavoro, il figlio…
Ecco. E’ stato proprio quando ha parlato del bambino che mi ha fissato per un momento negli occhi.
E sapete…
In quell’attimo ho capito che non mi ero sbagliato: non era stata una illusione solo mia.
Tra noi era davvero scoccata una scintilla da uomo a donna, una luce che ancora brillava, tenue e semisepolta, dentro i cuori di entrambi.
Certo, è stato molto meglio che sia andata così, che la ragione abbia prevalso, e ognuno abbia preso la propria strada.
Ma quell’incrocio caldo era stato reale: era bastato rivedersi un momento per richiamarlo in vita.
Quante situazioni del genere si verificano durante un’esistenza? Di alcune ci accorgiamo, qualcuna la cogliamo, la maggior parte le lasciamo andare, altre ci passano accanto completamente inosservate, non ne sapremo mai niente.
Rimpianti? Occasioni perdute?
Forse.
Ma non si possono vivere contemporaneamente tante vite. Bisogna fare delle scelte.
Dirigere il treno lungo gli scambi. Altrimenti non si arriva mai in stazione, o si finisce su un binario morto…”
Un ultimo sospiro.
“Poi ci siamo salutati con un certo riserbo, quasi con imbarazzo. Ci siamo augurati reciprocamente buon anno.
L’ho guardata allontanarsi col suo passeggino.
Non si è voltata indietro.
Ma ho capito che le è costato un certo sforzo…”
Scritto da Alberto Arnaudo