Game over

Sarebbe stata l’ultima volta. Se lo era ripromesso, guardandosi allo specchio. Non poteva essere una bugia, l’immagine riflessa era quella di una donna risoluta che aveva preso, difronte a se stessa, una decisione irreversibile. Tornare indietro non sarebbe più stato possibile. Sentiva di aver preso una saggia decisione. L’aveva resa più vecchia di qualche anno la storia del gioco. Ogni mattina, all’alba, dopo una notte tormentata, correva in bagno per vedere se il suo aspetto fosse cambiato.
“Una, due, tre…questa ruga ieri non c’era, avrò dormito poco”.
Aveva paura di diventare vecchia come quella strega della fornaia di sotto. Lei, al suo aspetto, ci teneva, c’era sempre stata molto attenta. L’allenamento per il corpo, la crema per le rughe, gli integratori agli omega3 arricchiti di acido ialuronico…Lo stipendio non era un granché, ma lei era sola, ancora giovane e non aveva figli.
“Non farai tardi al lavoro?”, chiese sua madre.
Fece no con la testa.
“Avrei bisogno di prendere la tua macchina, la mia l’ho lasciata in garage e non ho avuto il tempo di fare benzina. Se mi fermo a metterla rischio di fare tardi davvero”.
Era una mamma anziana, che, con il tempo, era diventata sempre più stanca e ammalata. Faceva la postina una volta, era sempre in movimento. Vederla taciturna in casa e sbattuta su quella poltrona non le faceva piacere. Claudia era la sua unica figlia, l’aveva avuta dal marito, morto tanti anni fa. Era una vecchina gracile, con le vene in evidenza. A Claudia faceva un po’ impressione quando l’accompagnava in ospedale per le cure. Una volta le piaceva starle accanto, ultimamente pensava solo al suo tornaconto che era quello di riavere i soldi della benzina. La mamma si sentiva sempre in debito con lei. Se andava a fare la spesa le dava sempre qualcosa in più. Per il disturbo, le diceva. Come se fare qualcosa per la madre dovesse essere un dovere. A Claudia piaceva essere libera, non voleva impicci. Andare al lavoro era già un dovere macroscopico, non le servivano altre cose da fare. Nel suo mondo poteva esistere solo lei.
Prese la macchina della madre e raggiunse l’ufficio. Faceva la segretaria in un’officina per riparazione auto. Un po’ di tempo fa aveva iniziato a uscire con un ragazzo che faceva il corriere. Passava in officina a lasciare i pacchi e li consegnava proprio a lei. Era un bel tipo, la faccia pulita, sembrava un bambino. Lei impegni non ne aveva. Qualche storia si, ma niente di serio.
“Ci verresti a prendere un caffè dalla Pepita con me?”, chiese lui, quasi arrossito in volto.
“E la Pepita chi diavolo sarebbe?”, rispose Claudia sorridendo.
“È la Signora del bar qui accanto, la chiamano così ma non so perché sinceramente, però so che fa degli aperitivi eccezionali, ci mette anche le olive all’ascolana, calde calde”.
A Claudia sembrava un invito un po’ sciocco. Sentiva di meritarsi un po’ di più che due olive calde dalla Pepita. Però con Diego era finita da poco e lei era sola, un’uscita con questo ragazzo alla fine poteva andare bene.
“Ok, ci vediamo alle 17 al bar. Non fare tardi che poi vorrei andare in palestra.”
Alle 16,45 Marco era già lì che l’aspettava. Claudia arrivò tutta impettita cinque minuti dopo l’orario stabilito. Si era sistemata un po’ passando la spazzola tra i capelli, aveva lavato i denti per rinfrescare l’alito e rimesso un filo di rossetto.
“Insomma, queste olive?”, chiese Claudia sorridendo.
Marco aveva già fatto allestire il tavolino con un fresco aperitivo, la Pepita ci si era impegnata tanto su sua indicazione. Era cominciata così quella storia tra i due, senza impegno.
Alcuni giorni dopo l’aperitivo, Marco l’aveva invitata a casa sua. Le aveva preparato gli spaghetti al pomodoro e le aveva servito un buon vino rosso.
“Sai che faccio dopo cena per rilassarmi?”, le aveva domandato sperando che Claudia si incuriosisse.
“Guardi un film romantico e poi te ne vai a dormire”, aveva risposto velocemente lei quasi a sbeffeggiarlo.
“Non proprio. Mi diverto. Mi collego a una piattaforma di gioco d’azzardo, punto qualche soldo e vedo se c’ho preso”, rispose Marco con tono di chi vuole vantarsi.
Claudia non ci aveva capito molto, ma rimase lì, vicina a lui, ancora un po’ intontita dal vino.
“Vedi? Ho puntato venti euro e ne ho vinti trenta, mi è andata bene! È una questione di fortuna! Ripunterò di nuovo”. Marco sembrava entusiasta. Claudia non era molto coinvolta, ma alla fine della serata, dopo due ore che Marco giocava, avevano in tasca cinquanta euro in più di quelli spesi.
“Che ci possiamo fare ora?”, chiese lei sperando che la portasse fuori a cena il giorno dopo.
“Li giochiamo di nuovo!” disse.
“Non è meglio farseli accreditare? Sarebbe un peccato perderli!”
“Claudia, queste sono piccole cifre. Come si perdono si riguadagnano. Io sono fortunato, ho avuto solo un Game Over da quando ho iniziato a giocare”.
“Un cosa?” gli chiese incuriosita.
“Un Game Over è quando perdi tutto! Ma avevo puntato poco, il giorno dopo li ho rifatti!”.
Claudia era rimasta con l’amaro in bocca. Ci sperava davvero nella cena, ma certo con cinquanta euro non l’avrebbe mai portata in un locale di lusso. Altre due carte da cinquanta e potevano puntare a quel ristorante giapponese lungo la strada.
Il giorno dopo erano di nuovo a casa di Marco.
“Stavolta dobbiamo puntare di più se vogliamo vincere somme più grosse”, disse Marco con aria di sfida.
Claudia era ancora in tavola a mangiare una manciata di noccioline. Si alzò e lo raggiunse. Negli occhi non aveva più il ristorante giapponese, sperava di sedersi in un cinquestelle in piazza a Milano.
“Incrociamo le dita Cla, che, se va bene, ci compriamo tutto il bar della Pepita!”, disse Marco con una risata nevrotica.
“Pensavo a qualcosa di meglio sinceramente!”, replicò lei mentre lo guardava storto. “Scusami, ma tu da quando giochi che somma hai vinto? La più alta intendo”, chiese incuriosita.
“Ho vinto duemilatrecento euro e me li sono fatti accreditare nella carta di credito. Uso quella per giocare”, rispose soddisfatto.
“Cavolo, altro che il ristorante giapponese che avevo in testa!”
“Claudia, ma quale ristorante giapponese? Io spererei di comprarmi la macchina nuova!”, replicò Marco infastidito.
“Quindi quei soldi li hai messi da parte?”
“No, che ci faccio con duemilatrecento euro? Li ho rigiocati e ho fatto altre vincite. Per la macchina ci vogliono cifre maggiori, quella che voglio io non è mica una panda!”.
La serata finì male e Marco ci rimise trecento euro. Claudia tornò a casa dispiaciuta per i suoi sogni buttati al vento. Trecento euro erano tanti, pensava. Sperava che il giorno dopo Marco sarebbe riuscito a rivincerne almeno la metà. Si sentiva un po’ in colpa per quei soldi. Se fosse stata meno ambiziosa avrebbe potuto convincerlo a fermarsi non appena si fosse accorta che il bilancio stava andando in rosso.
“Ci vuole del tempo a guadagnare trecento euro, almeno quattro giorni di lavoro pieno”, penso tra sé e sé.
Fantasticava mentre prima di andare a letto si cospargeva con le sue creme antirughe rassodanti. Erano passati alcuni giorni da quando aveva conosciuto Marco e non gli aveva mai chiesto di farla giocare. Non era tecnologica e delle scommesse ci capiva poco. Era presente, si divertivano a farlo insieme, anche se Marco sembrava ogni giorno più accanito. Pensò che effettivamente un’auto nuova gli sarebbe servita e se non fosse stata per questa possibilità che gli dava il gioco, nemmeno se la sarebbe potuta sognare. In fin dei conti non stavano facendo niente di male. Anche i poveri hanno accesso ai sogni. Pensava a sua madre, a quanto l’avevano fatta contorcere con tutte quelle lettere da consegnare. Anche quello stipendio, nonostante le ore lavorate, era micragnoso. Il padre poi, aveva fatto l’operaio una vita, e poco prima di andare in pensione era morto di infarto. Nessuno dei due era stato presente con lei nel quotidiano. La vita era stata più dura di loro. Dovevano pensare a lavorare per sopravvivere. Si addormentò, pensando all’immagine di sua madre buttata sopra il divano con quell’aria di chi non ha più alcun interesse per la vita e aspetta solo il giorno della propria morte.
Aveva promesso che la mattina seguente sarebbe andata a fare la spesa per casa.
“Prendi poche cose, il frigo ancora non è vuoto”.
Il tempo di dire due parole e si era ributtata subito su quella poltrona a guardare la televisione, stanca e dolorante. Mentre scendeva le scale si accorse che mamma le aveva dato troppi soldi per quelle quattro cose scritte sulla lista.
“Forse non aveva spiccioli”, pensò.
Da quando si era ammalata non usciva più. Giusto dalla fornaia di sotto, in farmacia, oppure alle poste, a prendere qualche soldo da tenere in casa.
Claudia fece la spesa esattamente come indicato da sua madre, non aveva alcuna voglia di aggiungere qualcosa in più, nemmeno di dolce per tirare su il morale. Tornò a casa, mise il latte in frigo perché era quello fresco e andava conservato, le uova, un formaggio molle, due banane. Contò il resto per restituirlo e si rese conto che c’era ancora un bell’avanzo. Si voltò, guardò la mamma che nel frattempo era crollata nel sonno e in un attimo, senza pensare, se li mise in tasca. Era la prima volta che lo faceva e l’aveva fatto senza pensare. Non sapeva ancora cosa farsene, il suo gesto era stato talmente istintivo da non lasciare spazio a nessun pensiero consapevole. Uscì dal lavoro e decise di raggiungere Marco a piedi. Così si incamminò; era una bella giornata. Camminando per strada si fermò a una tabaccheria e chiese un pacchetto di sigarette per Marco. L’occhio le saltò su due grossi cartelli che il tabaccaio aveva attaccato al vetro. Su uno c’era scritto che due giorni fa avevano vinto mille euro e su un altro che ne avevano vinti cinquecento.
“Potrebbe aggiungere alle sigarette un biglietto gratta e vinci per favore?”, chiese lei al commesso.
“Quale preferisce?”
“Non saprei sinceramente, non ci capisco molto. Mi dia uno di quelli che ha fatto fare quelle vincite scritte là”.
In un attimo si ritrovava con un pacchetto di sigarette e un gratta e vinci in mano.
Raggiunse Marco che l’aspettava già intento nel suo gioco. Lo abbracciò e con entusiasmo gli disse che aveva qualcosa per lui.
“Senti io non ci capisco di scommesse. Ti ho portato un biglietto gratta e vinci”, gli disse sorridente.
Marco aveva un’aria stanca. Alzò lo sguardo verso di lei e nervosamente le disse che i gratta e vinci non sono come le scommesse perché non si vince mai. Claudia restò male ma capiva che era ancora nervoso per la storia dei soldi persi. Tenne il biglietto in mano e cominciò a grattare. Due numeri uguali…no, sono tre! Duecento euro!
“Marco, abbiamo vinto!”
Marco si avvicinò, guardò il biglietto e restò sbalordito. Lanciò un urlo di gioia e l’abbracciò.
“Hai avuto quella che si dice la fortuna dei principianti!” e proseguì: “Corri in tabaccheria e fatteli dare subito che adesso ce le giochiamo!”.
Claudia non se lo fece ripetere. Corse dal tabaccaio e ritirò il premio. Era felice perché aveva recuperato una parte di soldi che Marco aveva perso e sentiva che ora sarebbe andato tutto per il meglio. Prima di uscire chiese al tabaccaio altri due biglietti gratta e vinci perché in fondo quelli erano soldi regalati e poteva permettersi di comprarne altri due.
Quella sera andò bene. I due benedirono le somme vinte con due rhum.
Alcuni giorni dopo prenotarono al ristorante giapponese. Claudia si sentiva appagata. Guardava quel ristorante elegante e si riempiva gli occhi con i colori delle pietanze. Quella piccola vincita aveva riportato il buonumore. Marco non le toglieva gli occhi di dosso, era orgoglioso di lei e lei non si era mai sentita così importante.
Da quando avevano deciso di frequentarsi erano trascorsi circa sette mesi e in quel tempo non era passato un giorno in cui non fossero stati insieme. Ma la loro relazione non aveva nulla di particolarmente entusiasmante. Ciò che li legava era una dipendenza vera e propria. Marco era sempre più attirato dal gioco mentre Claudia alla ricerca delle sue attenzioni.
Era un rapporto che si basava sulle catene più che sulla ricerca della loro libertà, più sull’ossessione che sull’amore. Claudia sentiva il bisogno di compiacerlo, continuamente. L’avrebbe accontentato in tutto. Non si era mai comportata così nelle sue precedenti relazioni, tanto che spesso appariva fortemente narcisista, ricercando nella coppia l’appagamento di se stessa piuttosto che il bene di entrambi. Aveva sempre pensato a sé nella vita, non aveva mai assunto responsabilità e non ne aveva volute fino a quel momento. Ora sentiva il peso di Marco, di doverlo rendere felice, ma anche in questo caso, il suo era un amore egoista, perché inconsapevolmente ricercava solo le sue attenzioni. Credeva di amarlo perché quella sensazione la percepiva nello stomaco. Ma il gioco per Marco era diventato dominante. Un’attrazione sempre più intima. Il bisogno di giocare lo avvertiva continuamente, anche mentre era al lavoro, tanto che decise di attrezzarsi a dovere acquistando un tablet e una fonte di ricarica da tenere sempre dietro. Ogni giorno pensava a come poter fare soldi con quel sistema, puntare era la sua unica ragione di vita. Ma era arrivato al punto in cui vincere non lo entusiasmava più. Non era della vincita in sé che gioiva, quanto al fatto che quella vincita gli avrebbe permesso di giocare ancora.
Claudia avvertiva il suo cambiamento. Mentre prima giocava quasi senza impegno, per distendersi dalla fatica del lavoro, con il tempo era diventato un vero e proprio tormento. Non esistevano più uscite con gli amici, né film in tivvù, né tanto meno cene a lume di candela. Si parlava soltanto di quella maledetta abitudine, diventata una vera e propria ossessione. Anche il suo aspetto era cambiato. Era sempre più stanco e si notava nel suo volto che non era mai presente, piuttosto era lontano, perso tra i suoi pensieri. Tutto per Marco girava intorno al gioco. A volte adoperava metodi particolari per poter sperare di vincere. Una volta aveva contattato una cartomante per sapere se stava facendo bene. Quando lo seppe, Claudia scoppiò in lacrime, ma poi si fece convincere di nuovo da Marco che fosse tutto sotto controllo. Metteva in atto piccole routine prima di mettersi al gioco, quasi a scacciare un possibile malocchio; movimenti ripetitivi che riproponeva ogni qualvolta in cui era riuscito a vincere. Ma anche se vinceva non cambiava nulla. Vincere o perdere non faceva più la differenza, ormai l’importante era giocare.
Quel pomeriggio Claudia aveva deciso di prendere un’ora di permesso dal lavoro. Ormai Marco le aveva consegnato le chiavi di casa e lei poteva decidere di entrare e uscire ogni volta che voleva. Decise quel giorno di farsi trovare vestita in modo provocante per attirare la sua attenzione. Aveva acceso le candele e sistemato le tende della finestra in modo da non far passare molta luce. Per aria aveva spruzzato una di quelle fragranze che sapevano di limone, fresche, un po’ afrodisiache. Marco sarebbe dovuto arrivare dopo qualche minuto.
Quei minuti composero ben presto un’ora. Era in ritardo. Il cellulare staccato. Claudia iniziò a rivestirsi comoda con i panni che aveva tenuto durante il giorno al lavoro. Prese la macchina e fece la strada di ritorno che avrebbe dovuto fare Marco per tornare a casa. Riconobbe due colleghi per strada e si fermò.
“Ciao, scusami, sei il collega di Marco vero?”
“Si, mi dispiace per quello che è successo”, rispose lui quasi mortificato.
“Perché che sarebbe successo?”, chiese Claudia sospettosa.
“Ma come non hai saputo? Ha avuto un incidente con il furgone, l’hanno portato in ospedale”.
Claudia restò immobile, le mani sul volante.
“Vedrai che non è nulla, ha fatto tutto da solo. Glielo abbiamo detto tante volte che non può pensare di guidare con una mano e con l’altra scrivere sul tablet”, aggiunse quasi deluso da quel comportamento tante volte sottolineatogli.
Claudia si rese conto che anche al lavoro, i colleghi, si erano accorti di qualcosa che non andava. A questo non aveva mai pensato.
Corse all’ospedale e chiese di Marco. Aveva sbattuto la testa, guidava senza cintura. Trauma cranico, ma la testa era a posto, era stato fortunato.
Fortunato…
Quante volte Claudia aveva sentito parlare di fortuna con Marco. Da quando lo conosceva, ogni cosa era diventata una caccia alla fortuna. Fino a che punto, si chiedeva.
Raggiunse Marco nella camera che gli era stata assegnata e si mise vicino a lui. Gli prese la mano e iniziò a piangere.
“Mi vuoi bene?”, gli chiese.
Marco era agitato, nervoso.
“Ho lasciato il tablet dentro il furgone. Prova a chiamare Giovanni, senti se lo ha preso lui.”
Claudia si sentì morire dentro.
“Ma non ti basto io? Che cosa ti dà questo gioco che io non sono in grado di darti?”, chiese con gli occhi pieni di lacrime.
“Senti Cla, non metterti anche tu a rompermi le scatole! Dammi il tuo telefono che devo chiamare Giovanni. E smettila di piangere, che c’è da piangere? Non sono mica morto! Sono stato fortunato!”, replicò Marco con la faccia rossa dalla rabbia.
“Ti prego lascia perdere il tablet, adesso sei troppo stanco per pensare a questo, devi riposarti”, le rispose mentre gli teneva la mano appoggiata al suo cuore.
“Ma quale stanco e stanco! Senti vai a quel paese, dammi subito quel cellulare altrimenti ti metto le mani addosso!”.
Non l’aveva mai visto così agitato. Le mani gli tremavano, la pelle si era fatta rossa dal nervosismo, era in uno stato confusionale e ansioso. Respirava con affanno e se avesse potuto si sarebbe messo a fumare. Sembrava un drogato in una fase di astinenza acuta. Uno che aspetta la sua dose per poter stare meglio. L’incidente lo aveva obbligato a fare a meno del gioco per alcune ore da quando era successo e questa sensazione di smarrimento Marco non l’aveva mai sentita prima. Non riusciva a reggerla, non sapeva gestirla. In tanti mesi non si era mai allontanato da quel tablet o dal suo cellulare che gli permettevano in qualsiasi momento di collegarsi al gioco. Sembrava un pazzo che voleva darsi alla fuga. Se fosse riuscito a scappare avrebbe chiamato al lavoro, perché lì c’è sempre qualcuno, anche nel turno di notte. Avrebbe chiesto del suo tablet, sicuramente qualche collega gli aveva recuperato anche il cellulare. Lì dentro c’era tutto il suo mondo e lui lo rivoleva indietro. Voleva rimettersi a giocare. Solo giocando sarebbe tornato a respirare, solo puntando si sarebbe sentito ancora vivo.
Claudia si rese conto che Marco era una bestia indomabile e che se le avesse detto una parola in più, forse, le avrebbe messo davvero le mani addosso. Decise di farsi piccola piccola e fu investita dai sensi di colpa. Ripensò ai biglietti gratta e vinci che gli aveva regalato per restituire le somme perse e ai soldi che aveva di soppiatto rubato alla madre, approfittando della sua poca attenzione. Nei mesi in cui Marco era entrato nella sua vita non era più uscita a fare una passeggiata e non aveva più preso il caffè con Simona, la sua più cara amica. Non era andata in palestra, non aveva avuto più soldi per comprarsi le sue creme. Il suo mondo si era trasferito da sé a Marco, dal suo narcisismo alla sua dipendenza affettiva. Desiderava solo che lui la guardasse.
Marco avrebbe passato la notte in ospedale.
Claudia lo salutò con un bacio sulla fronte. Aveva chiesto all’infermiera di dargli qualcosa per dormire, per alleviare la sua tensione. Aveva mentito dicendo che ultimamente aveva dei grossi problemi al lavoro ed era molto stressato. L’infermiera acconsentì senza problemi, bastava guardarlo negli occhi per capire che fosse fuori di sé.
Tornò a casa stravolta. Aveva in auto ancora quello stupido completino sexy che aveva comprato apposta per loro. Al rientro la madre era ancora sveglia. Claudia si domandò se si sarebbe mai accorta che al rientro aveva un aspetto diverso, che i suoi occhi erano rossi e le sue guance coperte di solchi di lacrime e rimmel. Ma era passato troppo tempo da quando aveva sentito i suoi occhi sopra di lei. Ormai quella sensazione non se la ricordava più.
Marco fu dimesso il giorno dopo. Sulla strada del ritorno chiese al taxi di fermarsi al lavoro. Scese e passò in amministrazione.
“Che ci fai qui?”, chiese la segretaria.
“Sono venuto a riprendere le mie cose prima di andare a casa”.
“Sì, è tutto qui, su questa scatola, anche il tuo cellulare. Ma come stai, piuttosto? Ultimamente eri sempre stanco”, le disse sperando che vuotasse il sacco.
“Dormo poco di notte, forse i turni cominciano a essere un po’ pesanti, ho solo bisogno di riposo. Adesso devo andare, ho il taxi che mi aspetta”.
Uscì velocemente da lì dentro sperando di non incontrare qualche collega, con il quale aveva più confidenza, che gli avrebbe, magari, fatto perdere altro tempo.
Tornò a casa, c’era luce fuori ma le tapparelle erano abbassate e le tende chiuse. Claudia le aveva lasciate così il giorno dell’incidente e c’erano ancora le candele sul tavolo. Marco non si chiese nulla, non si fece nemmeno una domanda. Attivò il suo tablet e cercò di rimettersi al gioco, puntando quello che aveva. Finalmente, poteva ricominciare a respirare. Ma durò un attimo quel momento idilliaco. Credito insufficiente. La sua carta di credito era vuota, aveva prosciugato tutto il plafond. Prese il cellulare per verificare quanti soldi avesse ancora nel conto e si accorse che anche lì non c’era rimasto più nulla. Non poteva aspettare il prossimo stipendio, ci sarebbero voluti ancora una quindicina di giorni. Pensò di chiamare Claudia, ma aveva il cellulare staccato. Allora chiamò in officina, ma non era al lavoro, aveva comunicato di non stare bene e che avrebbe preso una manciata di giorni per rimettersi. Era solo, con la sua smania di giocare. Con un raptus di pazzia scaraventò tutto quello che gli stava intorno, il tavolo, le seggiole, i bicchieri ancora sporchi, una bottiglia di birra rimasta aperta appoggiata sul lavandino della cucina, le candele che con tanta cura Claudia aveva sistemato per accoglierlo. Buttò tutto all’aria, rovesciò tutto quello che stava ancora in piedi. Si buttò infine sul divano, stremato, il respiro corto, il dolore al petto. Iniziò a piangere tenendosi la testa tra le mani. Sentiva il sudore colare giù per le braccia e pensò che ne fosse piena anche la fasciatura che gli avevano messo in testa. Era la prima volta che si sentiva sconfitto. Era la prima volta che si ritrovava al verde.
Claudia era di fronte allo specchio. Si era ripromessa che sarebbe stata l’ultima volta che lo avrebbe sentito. Stava come un cane abbandonato e percepiva forte dentro di sé la morsa dei sensi di colpa per aver abbandonato anche lui. Quella relazione era diventata tossica e sentiva che la stava invecchiando giorno dopo giorno. Lei, che non aveva mai voluto responsabilità, se ne era presa una troppo grossa stando insieme a Marco. Ripensava alla fornaia di sotto e sperava di non fare la sua fine, piena come era di tutte quelle rughe in viso per la stanchezza del lavoro. Anche lei si sentiva stanca, ma non per il lavoro, piuttosto per correre dietro a Marco, per ricercare le sue attenzioni, per renderlo felice. Ma anche tutto quello stress che aveva subito e che sentiva ancora addosso l’avrebbe portata a invecchiare e l’immagine riflessa nello specchio era sempre più vicina a quella della fornaia. Non poteva continuare a vivere in quelle condizioni, si sarebbe di certo ammalata. Come si era ammalata la madre forse, oppure peggio. Era ancora giovane per reggere addosso un peso così grande, ma di certo quella storia l’aveva portata a capire che dentro di sé qualcosa che non andava c’era. Guardò le foto sul comò. Piccola, con la sua mamma. Aveva solo una foto con il suo papà. L’aveva fatta incorniciare, ci teneva. Sarebbe stata più felice se le avesse dedicato più tempo. Magari a quest’ora non sarebbe finita a elemosinare le attenzioni di uno che aveva tutt’altri interessi che lei.
Marco fece quattro conti velocemente. Pensò di chiedere un aiuto a Giovanni, ma già si era accorto di qualcosa e non voleva tirarlo dentro. Non per proteggerlo, ma per non avere qualcuno tra i piedi che lo avrebbe potuto infastidire. Chiedere un anticipo al lavoro poteva essere una soluzione più veloce, ma non era molto che lavorava con quel contratto a tempo indeterminato. Si sarebbe messo in cattiva luce. Un’idea gli balzò in testa. Un prestito. Chiedere un prestito. Ma a chi avrebbe potuto chiederlo? Si ricordò allora di un suo amico che aveva preso una somma per comprare i mobili della casa nuova, dove sarebbe andato a vivere con la moglie. Compose il numero e si fece dare le informazioni necessarie.
“Tranquillo Marco digli pure che ti ci ho mandato io. Di uno come te ci si può fidare. E poi tu sei libero da impegni, io avevo già il mutuo ma un prestito me lo hanno dato comunque” gli disse Luca.
Prese le sue ultime buste paga, un documento e corse alla finanziaria che gli aveva indicato il suo amico.
“Salve, vorrei avere informazioni per prendere un prestito. Mi manda Luca, so che aveva fatto tutto con Sabrina”, chiese Marco timoroso.
“Si, si accomodi che ne parliamo. Sabrina non c’è ma posso aiutarla io”, rispose la segretaria.
Marco le consegnò le buste paga, il documento di identità e disse che doveva comprare dei mobili per casa nuova.
La segretaria fece un calcolo.
“Non è molto che lavora a tempo indeterminato. Qualunque sia il preventivo dei mobili, mi dispiace, ma non possiamo concederle più di settemila euro”.
Marco stava tirando un sospiro di sollievo. Forse aveva trovato la strada giusta. Non erano molti quei soldi ma gli avrebbero permesso di ricominciare a giocare. Fino ad allora se l’era cavata da solo; le vincite ottenute gli avevano ripianato le perdite subite e quando aveva avuto bisogno, c’erano stati i suoi risparmi e quelli di Claudia.
Già, Claudia. Ma ora avrebbe potuto fare tutto da solo. Non ci sarebbe stato bisogno di lei. Sarebbe andato tutto bene. Ce l’avrebbe fatta, senza chiedere niente a nessuno.
Si presentò presso un mobilificio, uno qualunque, e finse di essere interessato a fare un acquisto. Si fece rilasciare un preventivo per delle cose scelte a caso, senza pensare. Non gli importava dei mobili, voleva uno straccio di foglio da portare alla finanziaria per avere i soldi. Si stava cominciando a sentire strano dentro, quasi sporco. Stava mettendo in atto una vera e propria sceneggiata. Non ci sarebbe stato alcun acquisto di mobili. Ma nessuno lo avrebbe mai saputo. Quei soldi li avrebbe restituiti pagando a rate.
La finanziaria aveva accolto la sua richiesta, settemila euro sarebbero arrivati da lì a poco. Si sentiva morire durante i giorni dell’attesa. Si era chiuso in casa, fumava e basta. Non aveva soldi per fare la spesa. Gli era rimasto giusto qualche pacco di pasta. Claudia non si era fatta più viva e lui non l’aveva più cercata. Come avrebbe giustificato quella somma di denaro? Avrebbe dovuto darle troppe spiegazioni, ma non ne aveva né la voglia né la forza. Pensava di ricercala dopo, quando tutto sarebbe andato a finire bene. Conoscendola sarebbe caduta subito tra le sue braccia.
La somma arrivò. Marco accese il computer, fece il trasferimento dal conto alla carta e si attaccò alla piattaforma. Avrebbe puntato tutto. Non ci sarebbero state mezze misure stavolta. Aveva imparato che quando si punta una bella cifra, si vince sempre. Prese coraggio. Quel giorno si sentiva fortunato. Era una buona giornata. Ripeté tutte le azioni contro il malocchio. Tutto scorreva come se ogni cosa sembrasse al posto giusto. Studiò la mossa da fare. Aveva interrogato gli ultimi andamenti di quel giorno e, con l’esperienza che aveva, di certo il banco avrebbe dovuto restituire una bella somma. Si sentiva il fiato in gola, la paura gli correva nelle vene. Muoveva le gambe al suono di un tic nervoso, lo stomaco era chiuso. Non poteva più aspettare. Prese fiato. Quel gioco lo aveva stregato, lo teneva in pugno. Aveva bisogno di mettere fine a quella frenesia, a quella tentazione demoniaca che lo affascinava. Tutto pur di saziare quel maledetto desiderio. E per un attimo, ancora una volta, non gli interessava più di vincere. La faccenda della vincita, in un secondo, era già lontana dai suoi pensieri.
Claudia era uscita a fare una passeggiata quel giorno. Si era resa conto che da troppo tempo non sentiva il vento tra i capelli, l’odore dei fiori ma anche il profumo del pane che proveniva dalla forneria, che si era appena lasciata alle spalle. Si sentiva libera come lo era sempre stata. Marco gli mancava, ma forse non tanto lui come persona, quanto l’idea che di lui si era fatta.
Un respiro, due, tre. Marco puntò e infine schiacciò il tasto gioca. Il banco non restituì. Era un nuovo Game Over.
Scritto da Giulia Morettini