Vita annegata
Inizia la tachicardia e senti emergere come un vuoto che ti striscia dentro, arriva a dilaniarti l’anima.
Solo se per errore ancora ne possiedi una.
Ancora non barattata per l’ennesima busta, per avere in tasca il nulla.
La temperatura corporea sale e scende: un ascensore impazzito senza alcun pulsante per poterlo fermare.
Sei lì, In attesa di quella maledetta, agognata botta che stai anelando dall’ultimo buon fix che ti sei fatto. La voglia sale, la storia non termina mai e riparte da capo in un loop infernale, dove tu sei al contempo protagonista e antagonista della tua stessa storia.
Ti buchi, e dopo tanta intrepida attesa finalmente: quella spruzzata che sale giocherellona, frettolosamente percorrendo le tue vene fino ad arrivare a un’accecante luce.
E poi il nulla, il nirvana, l’estasi.
Eccoti: sei lì immobile a goderti l’ennesimo buco, un fallimento continuo che lentamente ti fa affogarenel rimpianto limaccioso, abitante della palude delle vite sprecate. La sensazione di esasperazione è un peso nel petto, subito sovrastato da una paradossale sensazione di tranquillità.
Che va a creare uno scorrere lento, e percorrendolo, attraverso estuari arteriosi, si giunge a sfociare.
Una semiperdita di coscienza.
Che non ti dà la possibilità di essere consapevole del tuo misfatto, solo preda del suo effetto.
Perché ti rende un automa obbediente, programmato nell’algoritmo delle carenze e della sua tirannia.
L’importante è sbragare un’altra busta per colmare la fiala con quella magica polverina di color marrone che non è cacao, ma l’amarezza che lascia è la stessa.
Con mano tremolante lo mantieni a fatica, quell’utensile bruciacchiato. Col suo ausilio ti donerà quegli istanti di effimera felicità.
Basta pensare. Vuoi solo viaggiare, staccare la spina, te lo meriti… è il tuo premio per aver fatto schifo anche oggi. Già lo sai: non ce la fai più a stare in questo mondo così vero, così severo, seguire i canoni, le regole.
Perché avere responsabilità? Quando con così poco tutto si annulla…
Pace dei sensi, pura goduria. Quando mi sale la gialla me l’immagino come sabbia di litorale coperta dall’onda di sensazioni che puoi comprendere solo se hai veramente provato quell’effetto.
Una carezza materna, si può provare se si è amato nella vita, perché questo dolce slancio donato dalla vitamina H ricorda l’appagamento dei bisogni affettivi colmati, ormai andati e negati nello stesso tempo, provati e persi a causa della stessa medicina. La droga dà, la droga toglie.
L’euforia porta un uomo morto a nuova vita. La forte eccitazione ti prende e ti sbatacchia per terra. Una botta un po’passiva e un po’ adrenalinica che per farti stare in quell’angolino di felicità si prodiga alla donazione di endorfine. Essere inerme, come feto nel grembo, al sicuro. Tutto condito con un po’ di ansie e un pizzico di depressione. Perché quell’effetto svanirà, già lo sai, il prezzo per annullare il dolore… quello fisico e quello mentale. Medicina per le anime perse… cura per le mancanze.
Spalanco sul mio io occhi dilatati, mi guardo dentro… non c’è più nulla.
Un vuoto a perdersi impercorribile per voi umani che non la provate, astinenti alla conoscenza, credo nel mio conscio di esserne fuori, io equivalente di me? Equipollente a lei? O lei da me stesso?
Vorrei morire ma son già morto, vorrei vivere ma son già morto.
E ho bisogno di te, maledetto condimento del mio immoralmente io… dal giorno che ti ho conosciuto ho imparato cosa vuol dire il dolore, ma nonostante tutto non riesco ora a stare senza di te… relazione di un tossico che vive un amore tossico che non corrisposto mi sfianca, io ti uso e tu mi lasci senza respiro, esanime al bivio tra realtà e fantasia, e nella disperata ricerca di lemmi chiacchiero col me che ero, ora chiuso lì dentro. E cosa resta? E cosa sento? Forse niente? Forse tutto? Forse mi pento!
Sono qui che strillo nella gabbia di menzogne che mi hai e mi sono costruito, padrona della mia vita.
Sono tuo schiavo succube e bisognoso e mi prostro alle tue buste.
E se provo a tenerti distante…tu non me lo permetti. Le tue catene si fanno pesanti, con facilità mi tieni sotto poiché la tua assenza vuol dire soffrire, perché lottando contro di te tu vinci… io perdo.
Il tuo asso nella manica per tenermi vicino è la tua astinenza, tu sei il male.
Figlia del demonio, le fiamme ardenti nelle ossa mi fai provare. La triste realtà è che sei vendicativa fino al midollo. Se con coraggio o forse disperazione io ti provo ad allontanare, la tua astinenza diviene mortale.
Il naso gronda, la fame viene a mancare e il mio unico pasto vorrei fossi tu, sono pazzo. Forse no, lo vorrei davvero tanto per non provare questo male. Irrequieto, malato di te, mi viene la pelle d’oca solo a pensarti, non resisto, ti voglio, ti desidero, ti amo, tremo davanti alla tua onnipotenza, i crampi mi divorano mettendo a subbuglio quello che rimane dello stomaco… ma basta: non ce la faccio più a essere il tuo dominato. Mi alzo, sbatto la testa al muro fino a ferirmi, questa volta la battaglia la vinco io…
Vomito via quello che mi rimane di te. Addio amica mia, sei stata la mia eroina, ora diventi l’antagonista della mia vita. Non sarò più schiavo di te anche se son convinto che non c’è droga buona o droga cattiva, ma solo l’utilizzo che se ne fa!
Questo è il racconto della mia vera galera: sei tu cara dipendenza.
Un’ennesima carezza e l’ultimo ricordo dell’ultima dose, ancora sballato ammanettato e portato in un luogo a me ormai caro, famigliare, già sto iniziando a tremare.
Non so se la troverò subito o per quanto dovrò rimanere senza, il viaggio con le sirene spiantate è un movimento ondulatorio che mi causa al mal di mare, mi godo l’ultimo viaggio accanto a te, o forse no, non staremo lontani per tanto, chi ti ama ti cerca. E puoi star sicura ti troverò, non c’è muro o isola deserta che ti tiene lontana: dove c’è domanda c’è offerta.
Ultimo sospiro prima dell’astinenza. Mamma galera mi ha riaperto le sue porte. Un giorno già a metà per un nuovo inizio, lontano dal mio mondo, a distanza dal mio parco, a distanza dal reietto che ero diventato, salvo da me stesso. Ma per quanto? E se fosse non così… queste mura mi possono allontanare da te? Ma come, e poi io non voglio lasciarti, perderei la famiglia, la donna e tutto quello che ho… ma tu, mia amante, mi rendo conto che ho occhi solo per te. Quando sei lontana inizio a star male, tremo, ma ora poche parole: voglio il metadone. Se tu, mia cara, non puoi essermi vicina, voglio ora almeno un tuo cugino prediletto. Con la poca forza a me rimasta, a squarciagola. Non posso cessare di urlare per averti in soccorso, e con l’ultimo filo di voce lo ribadisco, ancora, come un ossesso “datemi il metadone”. Non ce n’è trattative, ti devi sbrigare, ne ho bisogno! Infermiera, Capoposto, Comandate: o vi muovete, o all’ospedale mi dovete portare. Non c’è trattativa, o mi sballo o mi taglio.
Non stai tanto a pensare, ferirsi gravemente ti dà quel pizzico di adrenalina che allontana la lucidità e ti ricorda di essere ancora vivo.
E questo non è ammesso, devi essere sano e stabile.
Con la lametta in mano… in caso di follia un po’ di terapia per calmarti la rimedi sempre, e sicuro non vogliono un morto, fa troppo rumore e il carcere ama il silenzio…e se sei terapizzato al punto giusto, dalla branda non crei disturbo.
La guardia, un po’ incazzata, mi toglie la lama e io assumo un’aria imbronciata: ancora con troppo appetito. La mia fame dovete sfamarla voi, o vi posso garantire che è meglio morire.
Se le minacce e i fatti non vi bastano…
O mi date ciò che chiedo o faccio a modo mio, finché non me la prendo. Allora inizio la mattanza: un po’ pazzo ma con costanza. La testa la sbatto con violenza contro il blindo, non c’è dolore comparato alla sofferenza più nera che posso provare se interviene l’astinenza.
Soffrire per soffrire mi faccio questo male come forma di protesta, che capiscano che faccio sul serio. Si forma un rigagnolo di sangue, lo sporco, la ruggine della mia prigione, inizia a colare dal mio viso visibilmente stanco e bisognoso di nuova dose.
Le mie urla e il mio autolesionismo non impietosiscono né detenuti, né appuntati, abituati a drogati che fanno molto di peggio che un novellino come me, solo in ricerca di aiuto e di soddisfare il capriccio. Perché è vero, son codardo e di smettere di drogarmi non c’è pensiero per la testa.
Ma se la dottoressa ha i suoi tempi, l’astinenza non aspetta, non vuole saperne del bon ton.
Ora. La voglio ora. Me la prendo.
Questo in libertà, forse.
In galera non è così semplice attutire la scoppia.
Dopo lo scenico teatrino di un morto ancora vivo arriva sublime la mia medicina, dolce e leggiadra come lo sciroppo, benzina per il rifornimento. Dicendolo con il suo vero nome: arriva il metadone.
Ti rallegra un po’ la giornata, ti fa volare, non ti rendi conto di essere carcerato, perché c’è lui che ti copre col suo abbraccio e la galera e di passaggio, non ti rendi nemmeno conto che la giornata è passata che è già ora di dormire, dopo che per tutto il giorno con la maglietta levata ti facevi aria vagabondando nei meandri della tua scioltezza, pescando senza canna da pesca, vorticosa prigionia che non vuole saperne di lasciarmi andare via.
Tu pensi di essere al sicuro, ma qualche gentile venditore di morte è sempre presente adocchiato il drogato.
Il gentiluomo triste mietitore, o soltanto un altro poverello che a sua volta si paga il suo eterno amore, viene a proporre il buonissimo materiale ancora sporco di culo, tasca sicura per la cura.
Subotex, buprenorfina, buona e pregiata, importata dai migliori traffichini di sezione.
Come entra e da dove entra non è buona usanza chiedere: sapere non è creanza, basta che ti si riempia la panza.
Una triste verità ma col metadone fa contrasto, o una o l’altra, una scelta ardua. Anche perché l’amata pastiglia è più in voga di contrabbando visto che il reperimento, legalmente, è strettamente selezionato e controllato a vista: che è un po’ uno spreco visto che a pipparlo sale davvero un gran sballo.
In galera è di consumo e buon uso, perché una spruzzata di eroina è una leccornia per pochi.
Le siringhe con difficolta le si recuperano con abili furti dall’infermeria, se la pratica non riesce causa ispezioni attente dell’area sanitaria, con una penna vuota e un ago per gonfiare i palloni si può sopperire alla mancanza.
Che mina che tira, col poco che si ha si fa virtù, e se le gambe di qualche non attento consumatore vedi gonfiare non sono vene varicose, ma buongustai della dolce droga visto che per non farsi beccare ci si buca dove non batte il sole, all’inguine. Sale come se non ci fosse male, ma sbagli colpo e scappa il morto.
Una storia triste che ti affossa. Se l’ultima spiaggia era il carcere, per stare almeno un poco pulito e un poco lontano, anche qui oramai la sua presenza è tiranna. Non c’è scampo da te, non c’è luogo sicuro perché dove c’è drogato c’è droga… il turbolex ti fa diventare brutto! Il metadone ti accarezza, l’eroina ti coccola, inchinatevi alla loro tirannia e alla loro leccornia, una botta e la galera te la porta via. Le sezioni si fanno strette, scompensate di te, non puoi mancare, la gente impazzisce. Se per errore c’è né un po’ meno te ne accorgi dai detenuti chiusi nelle loro celle, con coperte anche d’estate tirate fino alla testa, la tua egemonia è totale, dilaghi nelle vite delle persone.
Arrivi anche a chi non ha mai fatto uso e ti schifa fuori di qui, sostenendo che sei solo per i drogati.
Ma qui l’ottica cambia, la coerenza non è parte integrante di voi che dite “io uso solo cocaina” e poi con lo specchio in mano in bagno a pippare subotex perché vi scusate dicendo che “in galera troppa paranoia, uso questo che mi fa stare meglio”.
Perché qui in carcere i vecchi galeotti lo ripeteranno sempre che “l’eroina è per i drogati”, ma poi si pippa Subaru come se non ci fosse un domani, il perché non lo comprendo, sappiamo quanto facciamo schifo, ma non lo ammetteremmo mai, ci rendiamo conto di strisciare come i vermi, ma se non lo facessimo andremmo in terapia! Bastasse lo psicologo per liberarci da questo male, si eviterebbero ansie e paranoie e paure.
Questa la storia di uno qualsiasi. Uno tra tanti che, nella speranza di trovare pace, vedrà il suo dolore amplificato dalle mancanze. Perché quelle celle marcescenti, vuote, riempite solo dalla sofferenza ma impermeabili al dolore, ti guardano. Ti osservano. Malaugurate portatrici di nefaste sventure, osservatrici di anime che espirano l’ultimo soave respiro, una botta, l’ultima pera, e quell’antibagno nascosto da occhi indiscreti diviene il dolce letto di una vita sprecata.
La guardo, la scaldo con attenzione, il cucchiaio è un lurido fondo di bomboletta di gas ancora sporco della dose prima, la siringa è già usata non più di una decina di volte un po’ da tutti in sezione, ma non temo… ho troppa voglia per pensare che per tutta la vita mi potrei rovinare, ma che me ne fotte. Non ci penso. Mi traballa la mano. Ho paura che mi possa cadere. Con cura aspiro con la siringa il liquido caro, utilizzando un filtro di sigaretta per trattenere impurità, timorato dalla febbre ossea, il liquido scaldato sale, orami pronto. È ora del buon fix, una cintura stretta al braccio: la vena si gonfia con timidezza, un po’ impaurita e un po’ bruciata dall’abuso. Me la sparo con un sussulto, sto venendo, sono in piedi che mi sorreggo contro il muro e mi sale caldo, fischiano terribilmente le orecchie, sto pensando o parlando? Sto vivendo o sto morendo, la luce aumenta, la frequenza è sempre più di un ronzio dilaniante, non vedo più. Sono cieco.
Le gambe cedono e il mio corpo cade abbracciato al cesso, provo a tirare la catenella, inserisco la testa per bagnarla con il getto… non basta. Sto male, vorrei vomitare tutto ma non riesco, mi sento un forte bruciore, la siringa ancora attaccata, mi sta facendo colare sangue per tutto il braccio. Il dolore aumenta ma la botta sale e mi crogiolo nel mio dolce lieto aspettare. Sto annegando e non sono in mezzo al mare. Ultimi istanti: mi sento morire, guardo il cielo, non vedo arcobaleni ma stalattiti di delusioni e promesse spezzate, una madre che piange un altro figlio tossico senza speranze, anche se la sua più grande maledizione è aver avuto un figlio drogato. Che non sia un male andarsene… son solo un peso, un tossico che non vuole cambiare, troppa paura di affrontare un mondo così triste e materiale… io che mi son dovuto fiondare per tutta la vita per provare emozioni, sono riuscito a sprecare le migliori occasioni, la mia amata mi ha lasciato perché non poteva guardare coi suoi occhi la persona a lei più cara che con le proprie mani stava dicendo sì, voglio morire, ma lentamente. Mostrando il peggio di me passo dopo passo, sempre più magro, sempre più vuoto, ma era tutto iniziato un poco per gioco, innocentemente, un divertimento solo una volta al mese, non di più.
È solo un gioco, poi tutti i giorni non puoi farne a meno, ed ora affogo abbracciato ad un cesso di porcellana di un fetido bagno in una buia galera di un posto qualsiasi, un carcere come altri, l’ennesimo numero di una morte senza nome, senza ricordo senza nessuno, affogo, affogo, affogo.
Mi sveglio tutto bagnato. completamente madido di sudore, il respiro mozzato. Sono affannato, non c’è la luce, non ho coraggio di aprire gli occhi, e se tutto questo fosse stato solo un brutto sogno… apri gli occhi. Ma tu sei ancora lì cara dipendenza.
Affogo, affogo, affogo.
Affogo in te.
Scritto da Ivan Marcia