Pieno, cavalli e carré
Sei di nuovo nella spirale.
La riconosci agilmente dagli immancabili effetti collaterali.
La tua sudorazione, l’odore di chi hai intorno, la noncuranza della tua collocazione spazio-temporale.
Avevi fatto tantissimo per allontanarti dal fango vischioso dei senza pace, dalle roulette russe concettuali e da quelle americane, così reali, luccicanti e inalienabili nel loro rimandare puntualmente quella commistione sudicia di illusioni e di espiazione.
E le senti risuonare le voci che furono. La pacatezza del croupier, il tono di sfida di chi è ancora a bocca asciutta dopo una ventina di spin consecutivi e poi il girone dantesco della tua coscienza, attanagliata da quel morso così disumano quanto familiare: è un sussurro costante all’altezza dello sterno e non sai più se è istinto o semplicemente un patetico appiglio statistico per non annegare.
Tutto è lontano e incredibilmente sovrapposto. La memoria si staglia nitida sulle fitte costanti di adrenalina.
Non vi è fame né sete. Non vi è amor proprio né dolore.
E ricordi perfettamente di quando all’inizio eri attento al protocollo e ti presentavi ai tavoli sbarbato di fresco e vestito in modo ricercato, con le Clarks da sessantottino a simulare un ossequioso amplesso sui tappeti che di lì a poco ti avrebbero visto imprecare e trasalire.
Trasalire e poi imprecare. Cambiando l’ordine dei fattori eri comunque travolto dall’incontrollabile.
Come quel pomeriggio in cui realizzasti di essere malato e al contempo disposto a tutto, a farti sottrarre il sonno, a scambiare la notte per il giorno e ad abbracciare una goffa recita di relazioni strumentali e amicizie lenitive. Solo perché lacerarsi in solitudine ti consegna a mezzo raccomandata le conseguenze che non puoi più arginare. Non ci sono 29 neri da implorare né cabale arcane da bestemmiare a mezza voce, ma se guardi bene, mentre ti sciacqui le mani in un cesso da ufficio d’igiene, c’è il tuo pallore e quella livida ombra che hai spesso compatito nei tossicodipendenti.
Erano le 4 di pomeriggio e nel centro di Vilnius la vita profumava imperterrita di inizio estate e di promesse solenni. Le tue tempie si placavano alla vista del fiume e dei passanti, apparentemente liberi da vincoli lavorativi. Sembrava una giornata di festa mentre proponevi, con un buonumore artefatto, una faraonica colazione.
Fingevi di non essere vittima del devastante concerto di numeri e rituali che avevi addosso, una violenza che non potevi sicuramente silenziare col calore di un pessimo cappuccino. Era stato Umberto, perso nei suoi pensieri a pochi metri dalla cattedrale, a farti realizzare che avevate giocato ininterrottamente per sedici ore. Aveva indicato l’elegante orologio dorato con l’aria di chi è troppo rassegnato per preoccuparsi della cosa.
Lui aveva raggiunto la Lituania per dare seguito all’espansione dell’azienda di famiglia, impegnata da decenni nei commerci su gomma e orientata a connettere il Baltico con la Germania centro-settentrionale.
Poi era incappato nel casinò dell’albergo dove alloggiava e aveva polverizzato in poche notti l’equivalente di un camion, poi due, poi tre; aveva continuato per settimane a farsi inviare denaro con le giustificazioni più disparate, finché la zavorra non era divenuta insostenibile e si era reso totalmente irreperibile, ripiegando su un appartamento che pagava coi proventi in nero della sua improvvisata attività di barman presso un locale molto in voga tra gli studenti.
E cosa succede adesso? Ora che non sei altrettanto distante da casa, Umberto non c’è e hai saldamente tra le mani i vetri appuntiti di quella sciagura che all’epoca si stava incuneando tra straniamento e candore.
Hai l’alito pesante e la barba di qualche giorno, indossi scarpe sportive anonime come lo sono le facce degli immigrati che continuano a bighellonare assuefatte in sala corse.
Piangi e sorridi mentre senti il suono, quasi uno squittio, di un cane virtuale in procinto di terminare una corsa sulla quale non hai scommesso.
Come è stato possibile? Chissà se Umberto almeno se n’è liberato…
E la tua mente è una foresta dove gli ansimi della fatica si alternano agli sputi sprezzanti per ciò che sei e ciò che reiteri, mentre fuori il mondo crolla e poi riparte. Ma tu non ne fai parte.
Lo specchietto dell’auto è rotto e non per questo ritieni possa proiettare un’immagine mendace: sei spaccato in infinitesimali brandelli che hai paura a definire, figurarsi prenderli in mano.
Cerchi di stabilire da dove provenga tutto questo romanticismo verso il farsi a pezzi, quasi un vile strumento per sottrarsi alla normalità, con i suoi impliciti carichi di responsabilità ma anche con le sue spontaneità e le sue emozioni, concetti alieni per chi ha come orizzonte il prossimo turno della quarta serie inglese.
E resti lì, nell’abitacolo, con un palinsesto cartaceo in mano e due cellulari sui quali confrontare i delta tra goal fatti e goal subiti, le prestazioni nel periodo, l’elenco degli squalificati e degli infortunati che scandisce, roboante, l’ossessione che costruisce il disegno di una partita di calcio che non guarderai.
Qualcuno vi chiama viziosi. Forse non te ne sei mai realmente curato, forse talvolta ci flirti con la tua ludopatia, che è una forma di sospensione e di delega, che è una condanna tremenda o magari la più vigliacca delle autoassoluzioni. E chissà quante altre cose ancora.
Ma fondamentalmente sono discorsi marginali, pretenziosi accessori per chi la bestia non la conosce e vivaddio non la subisce. Come la minuscola parte ancora sana del tuo pensiero.
E tergiversi, con la tua compagna inseparabile a dettare gli appunti e l’avvicinamento alla cassa, le simmetrie che compongono le schedine e al contempo usurpano la tua mente del suo potenziale.
Fosse solo quello. Il tuo cuore è un ostaggio che grida con un voluminoso strato di nastro isolante a cingerlo a doppia mandata, affinché venga impedita ogni forma di aiuto e il senso di oppressione che accorcia il respiro si faccia sempre più costante.
C’è una cassa fuori uso e rimani in fila, disprezzando chi ti circonda, rivendicando una corsia preferenziale perché tu, dannato ma a tuo modo eletto, punti pesante, mentre la pletora di sagome informi moltiplica la propria esposizione al demone a botte di tre euro alla volta.
L’incedere tragicomico è un trionfo di non verbali trasfigurati dall’aspettativa e dall’angheria di evitare l’ultima spiaggia, parente strettissima di un importo buono soltanto a poter confezionare un’altra giocata.
Non ti fai pena adesso. Vuoi solo uscire quanto prima a rimirare i tuoi gioielli di vaticinio contemporaneo, con una serie infinita di variabili che ti tormentano le viscere, fossero espulsioni a metà primo tempo o pareggi accomodati per sancire accordi di mercato sottotraccia.
Adesso le pieghi e le controlli, le disponi sul posto del passeggero e ti compiaci del suono di certe amene località che mai visiterai: Rotherham, Swindon, Torquay, Erfurt, Turku, Alicante.
C’è stato un tempo, sfumato, dolceamaro e cronologicamente lontano, in cui sognavi di visitare tutta l’Europa con i più disparati mezzi di locomozione, per poi dedicarti a Oceania e Asia.
Tutto è rimasto sulla carta, impigliato a quell’inchiostro sentenzioso che distingue idealmente una schedina vincente da una che non lo è. Per ogni viaggio rimandato o cestinato ci sono decine di combinazioni che hai nascosto e maledetto, rinnegato e gettato con rabbia lontano dalla pattumiera di casa tua.
L’ansia è palpabile, le ragioni largamente inconfessabili e ti tuffi nel limbo bizzarro della vita che si compie, mentre attendi che quegli eventi oggetto delle tue profezie si concretino e ti permettano di assaporare l’orgasmo prima del fischio finale. Quante volte ti sei sentito premiato da una sconfitta a pochi istanti dall’avercela fatta? Quanto spesso hai fisicamente goduto della necessità di provare immediatamente a rifarti, giustificandoti col fatto che eri andato a un millimetro da una grande vincita?
E vuoi indietro i tuoi occhi, i tuoi amici e i tuoi sogni. Ma come è pure che dite in ogni anfratto finto borghese di Nova Gorica o altre terre di confine dove abbondano i casinò? Ah, ecco: pieno, cavalli e carré.
Si è presa tutto, la tua dipendenza. La tua innocenza, la tua facoltà di scelta, il tuo tremore e il tuo viaggiare, confinando ogni anelito a un calcolo funesto e impraticabile, come una finanziaria che ingurgita clienti senza valutare la solvibilità degli stessi soggetti.
Ti chiedi costantemente chi ne risponderà. Il presente è la sibillina risposta che miseramente domina i tuoi tormenti. Dopo anni di terapie, gruppi di auto mutuo aiuto, relazioni squilibrate e, manco a dirlo, caterve di rate.
Eri uscito dalla comunità con i brividi di freddo e una rinnovata paura. Una paura colma di speranza, una paura finalmente umana e scevra di ogni dinamica finanziaria o di gioco.
La strada davanti ti appariva come una delicata possibilità, un rincorrersi di odori per troppo tempo ovattati dagli schermi e dai ridondanti rallenty, pronti a mostrarti che il cavallo che doveva salvare il bilancio della tua giornata aveva confuso l’andatura e quindi era stato squalificato.
Ci riflettevi, a tarda notte, di quanto fosse duro l’azzardo, di quanto ti avesse dato lezioni che abitualmente fornisce la vita. E ti domandavi se quella sublimazione non fosse essa stessa un testimone del tuo chiamarti fuori, del tuo non essere realmente disposto a soffrire e ad accettare quell’esistenza imperfetta, che è la stessa con la quale fanno i conti tutti.
Rimembravi l’incastro di maschere, quasi un rinchiudersi in matrioske atte a supportare le bugie necessarie: l’ironia in ufficio e l’atteggiamento sfuggente in famiglia, le mezze ammissioni con la cerchia ristretta degli affetti e i confessionali interminabili con i terapeuti.
Tutto il campionario, intervallato dai refresh sui siti di riferimento, le docce ad intermittenza nell’illusione che nel frattempo il Partizan Belgrado potesse aver ridotto il suo svantaggio, i cortocircuiti mnemonici per non contraddire le proprie stesse menzogne e quell’oceano di sofferenza rappresentato dall’urgenza dell’amore di chi ti vorrebbe salvare.
Guardati. Hai uno straccio di spiegazione per il tuo pianto incontrollabile?
Leggi con più attenzione. Hai vinto. Un intervento VAR ha impedito al Nantes di espugnare Lorient.
“Ma l’animale che mi porto dentro, non mi fa vivere felice mai. Si prende tutto, anche il caffè. Mi rende schiavo delle mie passioni.” Reclini lo schienale e ti appoggi sulle parole di Battiato, le lacrime sempre più copiose quasi a definire uno iato liquido tra le tue percezioni compresse e la suddivisione dell’investimento che dovrai approntare, ora che sei in striscia, ora che hai chiarito all’intero mondo dello sport chi è il supremo conoscitore dei valori assoluti che si fronteggiano in campo e persino sugli spalti, ora che hai previsto il grado di severità di un arbitro scandinavo e le inevitabili implicazioni, ora che sei più solo che mai a necrotizzare la tua vitalità e i tuoi desideri.
Umberto non aveva remore a raccontare dei mondi paralleli di cui aveva dovuto nutrirsi per scampare alla propria adolescenza; era immerso costantemente nelle proiezioni chiamate a gestire il suo disprezzo.
Non si era mai sentito incluso e contemplato dalla sua famiglia, si era trovato senza accorgersene a praticare l’anaffettività, squalificando spesso con sarcasmo l’intelligenza delle altre persone. Così le aveva sostituite, scientemente, con videogiochi sparatutto e una culla di cannabinoidi che gli avevano permesso per anni di andare a scuola senza sentirsi realmente a scuola.
Il carcere e la disillusione avevano poi schiacciato ogni suo eventuale progetto, svilendo risultati accademici che in termini assoluti avrebbero consigliato una dedizione verso la ricerca. Lui cercava soltanto sé stesso, persuaso ingenuamente che fosse necessario perdersi per poter riuscire nell’impresa di ritrovarsi.
Gli avevi voluto bene, nonostante il magma scivoloso che vi eravate trovati a condividere si fosse velocemente mostrato come il più arido tra i terreni. Cerchi minuziosamente di ripercorrere le tappe del suo inferno per potere anticipare le mosse successive della dipendenza, che domina incontrastata e spavalda la tua personale scacchiera. Sei sempre un passo indietro, a volte persino due.
Ti aggiri abulico e spento per le strade tutte uguali, come in preda a una convalescenza di cui conservi piaghe e cicatrici. La mappa dei bancomat e quella delle sale impresse in corsivo sotto le palpebre. Il pensiero di Umberto si dilegua così, nella frenesia della tua logistica obbligata.
Sei nuovamente in coda alla cassa, questa volta per comunicare gli estremi bancari e farti bonificare la vincita, che varcando i 2000 euro ti impedisce di avere il contante nell’immediato e ti trovi impotente a certificare che dietro al tuo pianto prevale l’impossibilità concreta di procedere subito con le nuove schedine.
Chissà se riesci ancora a imbastire bugie credibili per avere un anticipo da amici che non si fanno troppe domande, forti del fatto che in un modo o nell’altro hai sempre restituito il denaro.
Ora sei triste davvero, ora che il cielo ha delle splendide sfumature lilla e tu nemmeno le vedi, adesso che i figli dei tuoi affetti più prossimi hanno imparato a parlare e tu invece porti a spasso soltanto l’imbarazzo dei tuoi non detti e delle verità modellate al bisogno.
Spedito approcci un’altra frontiera, gli orari degli eventi sportivi si capovolgono e tu non puoi assolutamente attendere. Quindi fanculo ai pochi spiccioli rimasti in tasca in attesa che la vincita venga liquidata e fanculo al principio di presidiare unicamente i campionati di prima fascia, chiamati a fungere da parziale garanzia contro le combine. Largo al campionato uzbeko e a quello camerunense, ti fiondi con la mente a latitudini mai esplorate prima, riempi la giornata di goal che non arrivano e di prestazioni di squadra sospette, elabori le colonne e ti appoggi a qualche partita di tennis per condire di altro pathos l’attesa.
Attendi. Soffri. Implodi.
Poi ricominci.
Attendi. Soffri. Esplodi.
Guardi i brandelli della tua anima mentre ti infili i pantaloni al contrario, corri fuori che controllare gli esiti dei match notturni in auto porta sfiga, stupri un’altra mattinata per trovare un paracadute che attutisca il peso della tempesta che hai dentro.
Ribalti il cruscotto in cerca di monete, ricontrolli le schedine appallottolate che magari sei stato troppo frettoloso e ti è sfuggito che ne hai altre andate a segno. Non basta. Hai valicato ogni remora e vai oltre, fai il tour delle sale e verifichi furtivamente i biglietti altrui, che tanta gente va di fretta e non si sa mai.
Come li schifavi i vecchi ormai curvi e con gli occhi vacui, all’inizio. Quante volte hai visto il riflesso beffardo del gioco negli altri, quante volte hai ingoiato i battiti e ti sei tenuto la tachicardia come spia del tuo essere ancora in partita. E ti chini guardandoti attorno, con la camicia sgualcita e gli occhi iniettati di sangue, mentre quell’antico rimprovero ti si scaglia addosso con un frastuono decuplicato. Non hai età né dignità, ruberesti in Chiesa se gli offertori ti dessero un briciolo di prospettiva.
Non c’è Dio, non può esserci. Nei tuoi sospiri affannosi, negli scatti muscolari durante il sonno, nelle tue variegate forme di apnea. C’è invece un disordinato moto perpetuo, nella mente prima che nel corpo, a stropicciare le tue cellule e i tuoi atomi. Scorri la rubrica. Verifichi le esposizioni. Fai il conto della serva per accertarti che almeno acqua, gas e luce siano coperti. Sondi i contatti che non hai bruciato, chiedi senza chiedere e se non trovi una sponda allora, in un modo o nell’altro, implorerai.
Riecheggia nell’etere la tua genuflessione, sono tutti immersi nei loro impegni e magari non si accorgono quanto ti costi e soprattutto che cosa nasconda. Perché che tu mistifichi e manipoli non è più una sorpresa.
E raccogli le forze, che domani è una giornata campale e devi far saltare il banco se vuoi raddrizzare un attimo il passivo. Il riposo aiuta a recuperare la lucidità necessaria a metterti quantomeno nella condizione di razionalizzare le combinazioni. Ma si può realmente parlare di riposo?
Ti lavi accuratamente, ripetendo un cerimoniale che sei convinto ti aiuterà a focalizzare. Sei davanti a un bivio e occorre che ci arrivi libero da ripensamenti, almeno avrai impresso un tuo tocco su questo fato che non si piega al tuo volere.
Si fa strada silenziosa e ineluttabile la follia, che in parte riesci a tracciare e in parte accogli come strumento catartico. Non sai fare il tuo bene e non riesci completamente a procacciarti la punizione che a dosi variabili vuoi sentire risuonare nel petto.
Ti ritrovi a metà pomeriggio con un festival di boati e luci rosse che si accendono e si spengono, correzioni in corso d’opera causa ravvedimenti arbitrali e decine di campionati sconosciuti che producono le loro contraddizioni, indirizzando sospiri e spasmi come in una sapiente tortura. Hai evitato di circoscrivere gli eventi sui quali hai scommesso e il sito web sembra un flipper impazzito in un bar di pensionati. Solo che la pallina è la tua emotività.
Hai appunti e cerchi rossi, scadenze vicine e prefigurazioni che si spingono fino al giorno dopo.
Il gelo fa spazio a vampate di calore e iperventilazione, un’altalena in cui un momento sei su un trono immaginario e pochi minuti dopo semplicemente non esisti. E la letteratura sul tema parla di “fitta”, ma gli afflati masochistici che ti stai procurando sembrano dilatati e persistenti.
Cominci a identificare gli errori grossolani, le letture tendenziose, i coefficienti moltiplicati per disperazione o forse per quel sottile gusto di perdere che ti aiuta ad auto-confinarti nella spirale dei falliti.
Adesso hai perso sul serio. Maledici la giornata stitica della terza divisione tedesca e i passi falsi delle principali compagini della nostra Serie B e della Ligue 1 francese. A ben vedere se avessi invertito alcune combinazioni avresti fatto una vincita clamorosa. Trentotto partite coinvolte su cinque schedine distinte. Nove errori. Tre combinazioni perdute per un solo risultato difforme dalla tua compilazione.
Di colpo pesi quasi due quintali e hai tutti i muscoli ingabbiati da fremiti e indolenzimenti.
Vorresti dirti che non hai scelta e che è arrivato il momento di procedere, che saprai calcolare la posizione e il momento nel quale l’autobus potrà investirti senza per questo ucciderti.
Sono diversi anni che pensi a quell’attraversamento pedonale (con la visuale ridotta per i veicoli che provengono da sinistra) e a quanto l’assicurazione potrebbe versare, a maggior ragione se parliamo di trasporto pubblico e di un uomo costretto a due mesi di ospedalizzazione con relativo percorso riabilitativo.
Hai bisogno di dormire e di approcciare il discorso senza smania, vuoi operare le debite simulazioni e consolidare in un file le informazioni circa velocità stimata, angolo di impatto e le variabili relative agli imprevisti della traiettoria che osserverebbe il tuo corpo dopo l’urto, elementi che ti appaiono gestibili nella misura in cui si tratta di una strada a senso unico e non ci dovrebbero essere altri veicoli in transito, una volta che sei a terra.
Lo scenario è perfetto e la contropartita dovrebbe coprire ampiamente i tuoi debiti, lasciandoti in dote anche una discreta somma che andrebbe ad agevolare il tuo nuovo corso.
Hai bisogno di riaverti, di ripartire. Cosa c’è di più funzionale se non una ritrovata tranquillità finanziaria?
Sei pronto. Hai atteso il venerdì, dopo aver controllato gli orari ed esserti rassicurato sul fatto che nel week-end ci sono meno corse e gli autisti potrebbero avere il piede leggermente più pesante.
Nel raggiungere l’incrocio noti subito che c’è un corteo studentesco e sei costretto ad attendere il ripristino della viabilità standard. Ci sono vari capannelli con fitto utilizzo di slogan.
Scuoti il capo. Ti volti. Una ragazza canta De André a cappella.
“E ora siedo sul letto del bosco che ormai ha il tuo nome, ora il tempo è un signore distratto, è un bambino che dorme. Ma se ti svegli e hai ancora paura ridammi la mano. Cosa importa se sono caduto, se sono lontano. Perché domani sarà un giorno lungo e senza parole. Perché domani sarà un giorno incerto di nuvole e sole. Ma dove, dov’è il tuo amore. Ma dove è finito il tuo amore.”
Ti sorreggi al palo del semaforo pedonale. Quante volte ti è capitato di fare pieno, cavalli e carré?
Torni a casa. Non esistono scorciatoie praticabili per uscire dal dolore, nella vita reale.
Scritto da Fabio Zara