L’ombra
“Cammino sempre dalla parte dell’ombra, perché non si sa mai. C’è sempre qualcuno che mi vede e questo non va bene. Quell’idiota del dottore da cui mi mandavano prima di venire qui mi chiedeva di parlare della mia infanzia e allora non ci sono più andato. Non mi ricordo di quando ero piccolo, l’ho dimenticato e poi mi chiedeva anche di mia madre e mio padre. Lo faceva perché sono divorziati. Mi faceva tante altre domande, troppe e alla fine mi dava le medicine.
– Ci vediamo tra un mese – mi disse l’ultima volta. Si, aspettami! Io non le prendo, non voglio medicine, non vogliono capire che non ne ho bisogno. Mia madre insisteva, l’ho mandata a cagare e sono andato da mio padre. Ci si è messo anche lui e me ne sono andato anche da lì. Non vogliono capire che devono lasciarmi bere. Se bevo sto bene, non ho bisogno di nient’altro. Non ho altri problemi, solo fare attenzione alle presenze. Sai cosa sono? sono delle voci, come la tua. Non so mai se sono dentro di me o fuori. Si avvicinano, mi fanno gesti ma se cerco di toccarle si dissolvono. Glielo dico, che devono lasciarmi in pace, ma se grido troppo viene l’ambulanza e mi porta via. Allora ora ho imparato, corro a cercare l’ombra, lì non ci viene nessuno.
Le presenze sono cattive e maligne, le sento dal fruscio che fanno quando arrivano direttamente nella testa. Iniziando a parlarmi, come un sussurro, ma se gli do ascolto diventano forti e dicono cose che mi fanno paura. Si arrabbiano, dicono di coltelli, sangue, morti e io scappo. Ho paura di impazzire e non voglio essere rinchiuso. Non devo ascoltarle, e devo fare finta di non vederle, così prima o poi smettono.
Ecco vedi? parlo con te e non so se sei vero o no, se sei dentro o sei fuori. Però finché parli a voce bassa non mi dai noia. Come dici? È tardi?. Si, è quasi il tramonto e fra poco tutto diventa ombra e il mondo sparisce. Mi dai qualcosa da bere?”
“Adesso ci dobbiamo lasciare, devo fare altri colloqui, ma domani ci rivediamo. Ok?”
“Mi vuoi chiedere di mia madre anche tu?”
“No, mi parlerai solo di quello che vuoi”
“Anche dell’ombra?”
“Certo, anche dell’ombra”
Il ragazzo si apre ad un sorriso velato e a suo modo intenso. Si alza dalla sedia con movimenti lenti, trascinando i piedi.
“Me la dai una sigaretta?”
Sorride per ringraziare, poi raccoglie le mani attorno alla fiamma dell’accendino. Aspira profondamente, solleva la testa, si volta ed esce dalla stanza senza aggiungere altro. Il medico resta alla scrivania, lo accompagna con lo sguardo fino a quando non scompare nel corridoio.
“Sono i neurolettici”, dice al tirocinante psicologo che assiste al colloquio di accoglienza, “Dovremo tenerlo ancora sedato perché continua a delirare”, aggiunge chiudendo la cartelle clinica che era aperta sulla scrivania.
“In alcuni casi l’abuso di alcol, può esitare nella psicosi alcolica. Oggi hai avuto il battesimo del fuoco, così ti fai subito l’idea della comunità. Avevi mai visto una persona che sta delirando, Giacomo?”
“No”
“Ti vedo preoccupato, ti ha fatto impressione?”
“No. E’ che lo conoscevo”
“Davvero?”
“Si, eravamo nella stessa classe, al liceo, anche se prima di giugno aveva smesso di venire. Non mi ha riconosciuto. Anche io ho fatto fatica, se non avessi avuto davanti la cartella clinica forse non sarebbe stato possibile riconoscerlo”
“Al liceo? resta difficile immaginare uno come Matteo al Liceo”
“C’è stato solo per pochi mesi. Era bravo. Troppo timido, credo avesse una fobia sociale, quando doveva affrontare un confronto l’ansia saliva così tanto che si paralizzava subito. Freezing”.
“Forse potremmo provare a sfruttare la vostra conoscenza, ma voglio prima pensarci sopra, il suo è un equilibrio troppo fragile, al momento. Vediamo. Fammi un favore, scrivi tu la relazione d’ingresso, così ti eserciti, io preparo il piano farmacologico. Poi la controllo”.
Dieci anni prima
“E’ libero?”.
Il liceo, un nuovo edificio, diverso dalle medie. L’inizio di una nuova avventura, quella che fa diventare grandi anche se all’inizio è dura perché c’è tutta la montagna da scalare e invidi chi è già in quinta e in un anno finirà. Giacomo annuisce e sposta la sedia per lasciare più spazio al ragazzo che sta davanti a lui.
“Allora mi metto qui”.
Matteo parla con un filo di voce, come se avesse timore di farsi vedere. Si siede, apre il diario e si mette a disegnare qualcosa.
“Dove hai fatto le medie?”, chiede Giacomo, tanto per rompere il ghiaccio mentre l’aula si sta progressivamente riempiendo di altri studenti.
Matteo risponde a monosillabi anche alle domande successive, fintanto che non entra l’insegnante. Al cambio dell’ora Giacomo si alza, alcuni stanno facendo gruppo e lui si avvicina, per conoscerli. Matteo invece resta seduto al banco, continua a disegnare sul diario. Il Giorno dopo quando Giacomo entra nell’aula lo trova seduto su un altro banco, si è spostato nell’ultima fila, nell’angolo opposto alla cattedra. Giacomo lo guarda. Non ce l’ha con lui, semplicemente gli dispiace; Matteo è timido, come suo fratello più piccolo; hanno anche lo stesso nome. E’ timido nonostante sia alto e robusto. Uno come lui non dovrebbe avere timore mentre sembra proprio che la vicinanza con gli altri lo metta a disagio. Giacomo invece sembra più piccolo della sua età, ma certe cose le ha capite, sa che se ti metti in disparte perché ti senti insicuro e vorresti non farti vedere da nessuno, finisci inevitabilmente per ottenere l’effetto contrario. Certe cose le ha capite senza che nessuno gliele spiegasse e ha imparato a vincere la propria timidezza cercando di stare nei gruppi, a fare lo spiritoso quando c’è da ridere; a parlare seriamente quando c’è la situazione giusta. E’ così che finisce con l’essere rispettato.
“Ma che ha quello?”
“Quello? E’ stupido”
“No, è timido e riservato”. Giacomo difende Matteo. Gli dispiace che abbiano cominciato a prenderlo di mira e vorrebbe aiutarlo, ma è difficile farlo con chi non vuole essere aiutato. O non ci riesce. Capisce che se Matteo continua a starsene da solo prima o poi diventerà il bersaglio degli altri, anche se la sua stazza fisica al momento la protegge, non sarà per sempre. Lo ha visto alle medie. Il gruppo finisce per essere sempre più forte. Matteo è introverso, alle interrogazioni va nel pallone e spesso e alle prime difficoltà si blocca, negli scritti invece è molto bravo. Dopo gli iniziali spostamenti all’interno dell’aula è diventato compagno di banco di Giacomo, si può dire che sia il suo unico amico. Matteo è bravo anche a disegnare, poco alla volta fa vedere i suoi disegni a Giacomo. Qualche volta glieli commenta:
“La ragazza sta all’ombra del muro, perché l’ombra protegge, permette di vedere senza essere visti”
“Qualche volta sembra che anche tu preferiresti essere invisibile”.
“Se fosse possibile si. mi basterebbe vivere sempre nell’ombra. Mi piace, mi ci sento bene, non c’è nessuno che ti mette pressione”.
“Ma non ti manca lo stare con gli altri?”
“No, mi procura solo ansia”
“Senti idiota”, Tommaso interrompe il loro dialogo, “oggi ci mettiamo nel banco davanti al tuo e ci passi il compito di matematica”.
C’era da aspettarselo che prima o poi sarebbe successo, pensa Giacomo mordendosi le labbra per non rispondere a tono. Ha i lineamenti del volto contratti dalla rabbia, se fosse abbastanza forte andrebbe allo scontro. Guarda Matteo, come se sperasse una sua reazione, invece lui sta a testa bassa, come se non avesse sentito o tacesse per dare il proprio assenso.
“Hai capito?” incalza l’altro. I compagni hanno fatto capannello attorno, c’è anche la ragazza con i capelli neri raccolti in una coda, quella che piace a Matteo, anche se nessuno lo sa. E nessuno può saperlo perché Matteo non farebbe mai nulla che potesse rivelare il proprio interesse, però di soccombere anche in quel momento non può, perderebbe ogni possibilità futura, anche se del tutto remota.
“No”, riesce a rispondere con un filo di voce.
“Cosa hai detto idiota?” replica l’altro chinandosi minaccioso verso di lui
“No”, questa volta la voce è più chiara, Matteo ha sollevato la testa anche se evita di affrontare lo sguardo del compagno. C’è silenzio, tutti attendono che accada qualcosa. Tommaso è un prepotente, da un momento all’altro partirà all’attacco.
“Buongiorno ragazzi, che ci fate tutti in piedi? a posto, forza che abbiamo solo un’ora per la verifica”
L’insegnante di matematica è entrata, tutti tornano ai loro posti, Tommaso fissa Matteo per avvertirlo che non è finita lì e che sicuramente lo aspetterà all’uscita. Giacomo è sollevato, per la prima volta Matteo non ha ceduto. Anche lui non sopporta quei tre. Matteo ha il fisico per difendersi, e nessuno, all’infuori di lui sa che fa karate. Se volesse potrebbe suonarle a tutti, se solo non fosse così inibito, sarebbe la volta buona che Tommaso e i suoi amichetti la finirebbero di fare i prepotenti.
Suona la campanella, Matteo raccoglie libro e quaderno dentro lo zaino, esce per ultimo dall’aula. Si ripete che deve restare calmo, che non succederà nulla e che ad attenderlo non ci sarà nessuno. Arriva all’ingresso e sente che ha la maglia bagnata di sudore, vede Tommaso e gli altri che lo stanno aspettando, insieme a loro c’è il resto della classe, quasi tutti. Si ripete di stare calmo ma qualcosa dentro di lui sfugge al controllo e inizia a correre, sa che non dovrebbe farlo, ma non ce la fa a comandare il suo corpo, come quando non riesce ad andare avanti alle interrogazioni, come quando resta muto di fronte alle prevaricazioni. Corre. La fermata dell’autobus è ancora lontana, ma ogni secondo che passa diventa più vicina. – Se la raggiungo sono salvo – pensa. Qualcosa mi colpisce. La gamba non trova più l’appoggio sul terreno. Cade in avanti. Con le mani cerca di proteggersi il volto, piomba a terra pesantemente. Lo zaino si apre. Libri e quaderni si sparpagliano davanti. Solleva la testa, confuso e dolorante. La prima cosa che vede è la selva di gambe davanti alla faccia. Mi alza. Ci sono i suoi compagni di classe. Tommaso gli si è piazzato davanti. Gli dice cose che non capisce, è confuso. Si guarda attorno cercando una via d’uscita. C’è anche la compagna di cui è invaghito. Tommaso gli sputa in faccia, poi inizia a colpirlo. Si metto le braccia davanti alla faccia per ripararsi. “Aiuto, aiuto!”. Il grido gli esce dalla bocca istintivamente. L’altro si ferma. Si mette a ridere. Ridono tutti. Solo lui si vergogna e vorrebbe scomparire
“Fai schifo, coniglio”, dice Tommaso. Poi se ne va insieme agli altri. Si ritrova solo con Giacomo che lo aiuta a raccogliere le matite. I pantaloni si sono strappati all’altezza delle ginocchia, esce sangue. Anche le mani sono graffiate, bruciano.
“Perché sei scappato, perché non hai reagito?” chiede Giacomo amareggiato e deluso. “Perché non ne sono capace”, risponde Matteo, insolitamente con voce chiara. Inizia a piangere di rabbia “Non mi riesce, mi blocco. Basta, domani non ci torno a scuola. Non ci torno più”
“Pensi che i tuoi te lo lasceranno fare?”
“I miei sono già abbastanza impegnati a litigare tra di loro per farlo anche con me” Si ferma, stringe le labbra e scaglia un pugno su un cartello pubblicitario. Giacomo ha un sussulto. Un colpo forte, inaspettato. Non avrebbe immaginato tutta quella violenza dentro quel compagno così mite.
L’indomani Matteo non venne, e neppure nei giorni successivi. Giacomo seppe dagli insegnanti che si era ritirato e che avrebbe cambiato scuola. Non seppe più nulla di lui se non verso i primi di giugno. Quella mattina avevano fatto sciopero ed era andato con i compagni di classe a fare un giro nel parco cittadino. Lo riconobbe, era seduto al chiosco con un ragazzo e una ragazza. Lo riconobbero anche gli altri e si diressero verso di lui.
“Ciao idiota, che cazzo ci fai qui, ce lo hai chiesto il permesso?” disse Tommaso. Nel corse dell’anno si era tranquillizzato, solo alla vista di Matteo era ritornato il bullo di inizio scuola. Matteo si voltò verso di loro. Anche lui aveva qualcosa di diverso, Giacomo lo notò subito. La timidezza che ricordava sembrava del tutto scomparsa. Si alzò in piedi e tutti capirono che stavolta Matteo non era disposto a subire. Fissò Tommaso con un sorriso appena accennato, come a dirgli che accettava la sfida.
“Cosa c’è, idiota, ne vuoi ancora?”. Tommaso ebbe giusto il tempo di finire la frase prima che un pugno lo colpisse dritto sulla bocca, e poi un altro allo zigomo e poi altri ancora mentre cadeva a terra. Tre colpi per mandarlo giù, rannicchiato con le ginocchia al petto e il volto nascosto tra le braccia. Matteo cercò gli altri, questa volta abbassarono tutti gli occhi. Dopo qualche attimo aiutarono Tommaso a rialzarsi, Era dolorante, si tamponava il labbro spaccato con un kleenex, il sangue aveva sporcato camicia e pantaloni. Uno compagno gli passò il braccio attorno alla vita facendolo appoggiare alla spalla.
“Vieni”, disse, “andiamo”
Gli altri lo seguirono. Giacomo invece restò.
“Come stai Giacomo?” Disse infine Matteo quando gli altri si allontanarono, “forse ho esagerato ma non doveva provocare, l’aveva fatto fin troppo a scuola”. Giacomo continuò a stare in silenzio confrontando il Matteo che aveva conosciuto e quello che adesso stava davanti a lui. “Siediti, prendi qualcosa da bere. Ragazzi, questo è Giacomo, è un amico. Ti va una birra?”, aggiunse.
“No, grazie”
Sul tavolo c’erano diverse lattine.
“Cosa stai facendo adesso?”
“Niente, aspetto il prossimo anno per tornare a scuola. Ho deciso che andrò al professionale”
“Perché”, si lasciò sfuggire Giacomo
“Non ho più voglia di studiare come facevo prima. Sono cambiato”
“Più che altro ha voglia di sballarsi”, disse ridendo la ragazza seduta accanto che fino a quel momento era stata in silenzio intenta a rollarsi una sigaretta.
“Non darle retta Giacomo, non è vero, dice così solo l’altro giorno ho esagerato, ma è stato un caso”
“E’ perché non sai bere” intervenne l’altro ragazzo che era al tavolo, “non puoi iniziare con un negroni e poi passare alla birra. Con l’alcol si deve andare in salita, i gradi devono aumentare. Se li fai scendere succede il casino”.
Giacomo ascoltava. Era vero, Matteo era cambiato. Sembrava sicuro di sé e con la timidezza aveva perso anche la paura di confrontarsi con gli altri. Peccato che avesse deciso di non impegnarsi più nello studio – pensò Giacomo, Guardò ancora le birre e la facilità con cui Matteo aveva finito la sua lattina e se ne aprisse una nuova. Stette con loro una decina di minuti e poi si congedò. Quando tornò a casa cercò sul computer gli effetti dell’alcol. Il suo primo interesse verso le dipendenze nacque proprio quel giorno. Un interesse che lo avrebbe accompagnato fino alla laurea in psicologia e alla richiesta di tirocinio in comunità terapeutica.
Incontrò nuovamente Matteo l’anno dopo. Gli disse che non andava più a scuola. Aveva abbandonato anche il professionale e a settembre avrebbe compiuto sedici anni. Preferiva cercarsi un lavoro. Prima di salutarsi Matteo gli chiese se aveva una sigaretta o qualche spicciolo. Sembrava stanco, affaticato. La baldanza della volta in cui aveva steso Tommaso sembrava del tutto scomparsa, lo osservò mentre si allontanava lungo la strada, solo.. Poi non lo vide più, o quantomeno anche se lo aveva incontrato non non era stato in grado di riconoscerlo. Aveva continuato a pensarci, di tanto in tanto. Matteo che aveva conosciuto sui banchi del liceo era un ragazzo buono, ed intelligente. A Matematica era uno dei primi della classe, eppure quelle capacità non erano state sufficienti a salvarlo. Forse non era ancora pronto ad incontrare il mondo, forse avrebbe avuto bisogno di stare ancora nell’ombra.
Al colloquio gli aveva parlato dell’ombra. In fin dei conti Matteo aveva ragione, tutta la sua vita, o quasi, era stata vissuta nell’ombra di qualcosa che riuscisse a nasconderlo. Sembrava ci fosse definitivamente riuscito.
Scritto da Daniele Mannini