L’orologio di Pierre
Seduta nell’angolo più luminoso della stanza, Flora, osservava in religioso silenzio e con occhi scintillanti la tavola preparata per la vigilia di Natale. Il bianco candido della tovaglia di Fiandra che precipitava sui quattro lati della tavola, accoglieva un runner rosso damascato su cui si adagiava, come centro tavola, un vassoio argentato ricolmo di melagrane e bacche rosse intervallate da rametti di felci dorate e pigne porporinate. I calici di cristallo saettavano bagliori di luce impreziositi dai riverberi del lampadario di Murano, preziosa eredità di nonna Amalia e di nonno Giovanni che tanto l’avevano seguita ed amata.
Uno stato di grazia si percepiva nell’ambiente, dal pavimento di rovere fino agli ultimi ripiani della grande libreria a parete proveniva un rilassamento, una intimità ed una garbatezza di vita a cui si era da troppo tempo sottratta e che adesso sembrava miracolosamente apprezzare e riscoprire.
Quante vigilie di Natale erano trascorse in alberghi lontani, a casa di amici dopo che i suoi genitori erano precocemente mancati ed Edo, il suo primo marito, travolto dalla smania di viaggiare si allontanava sempre più da lei e dal loro progetto di vita fino a stabilirsi in Canada perché, diceva, che senza la meraviglia di quei paesaggi intorno non poteva più vivere.
Ora, con la pensione si apriva un’epoca nuova, il tempo padrone della sua vita cedeva il passo alla vita padrona del tempo. Troppi anni erano volati via frettolosi e silenti, sempre a parcellizzare il tempo, a diluire gli impegni della giornata, a dosare le uscite, a programmare i rientri, ad assecondare la serie ripetitiva delle incombenze familiari e lavorative, in fondo comuni a molte persone come lei. Ogni tanto, un week- end in zone limitrofe, un incursione in una città d’arte per respirare la storia e la bellezza, una cena di lavoro, un congresso, una riunione familiare sollecitata da un compleanno o da una ricorrenza festiva e poi loro, i più importanti, i suoi pazienti piccolini, indiscutibilmente graziosi e teneri ma incapaci di descrivere un malessere, localizzare un dolore e lei lì, ad osservare nei loro gesti, nei visetti espressivi il malessere e trasformarlo in diagnosi ed in cura, a volte con la narrazione collaborativa di un genitore, altre, con l’apprensione materna addirittura depistante e distraente se non addirittura controproducente. E poi vederli crescere quegli scriccioli, sgusciare via dal nido forti del vigore dei loro anni e ritrovarli adolescenti inquieti e poi giovani e adulti a rimarcare l’inevitabile scorrere del tempo e lei sempre lì con apprensione di madre, lei, che di figli non ne aveva prima voluti e poi non avuti.
Il suono gracchiante del timer che dalla cucina percuoteva le sue orecchie, la sottrasse ai suoi pensieri, si alzò dalla sua berger rosso pompeiano, si avviò verso il forno sollecitata da un buon aroma di carne agrumata, ne estrasse con le mani protette da guantoni imbottiti una pesante pirofila di gres porcellanato color ruggine contenente un’anatra dalla pelle dorata e croccante che affondava in golose e caramellate fette di arancia secondo la migliore tradizione gourmet. Il vassoio degli antipasti era una festa di colori per gli occhi e per il palato ed i raffinati e sfiziosi accostamenti che avevano richiesto un’accurata e studiata preparazione, facevano presagire i complimenti degli ospiti.
La stuzzicheria invitava ad allungare la mano per assaggiare olive, noccioline e pistacchi ed il vassoio degli aperitivi era perfettamente posizionato su un’alzatina di cristallo. Sistemò in tavola due ottime bottiglie di rosso di un’ottima cantina locale e si accertò di avere in frigo spumante e addirittura champagne, poi, con entusiasmo infantile (come poteva non averne rubato un po’ ai suoi piccoli pazienti?) estrasse da un cassetto della credenza otto cartoncini e dopo averli arrotolati e legati con un nastrino rosso, li appoggiò alla destra dei commensali. Otto -gratta e vinci- che avrebbero permesso ai suoi ospiti e a lei di tentare la fortuna. E poi c’era lei, Flora, nel suo vestito blu oltremare, il suo colore preferito, un tubino smanicato che fasciava un corpo ancora snello e sinuoso abbinato alle scarpe di vernice beige con cinturino alla caviglia e poi la collana di coralli che Pierre le aveva regalato per il suo pensionamento. Pierre, che dopo quattro anni dalla fine del suo matrimonio, era piombato improvvisamente nella sua vita ed aveva riportato ordine e serenità e soprattutto rigenerato gioia di vivere a piene mani.
Il suono del campanello la tirò bruscamente via dai suoi pensieri, aprì la porta, era Pierre che, apostrofandola Madame col suo raffinato accento francese, come faceva quando era di buonumore, la invitava a riporre in bella vista il panettone farcito di ottima qualità artigianale appena ritirato dalla premiata pasticceria del centro. Pierre aveva lavorato come barman su navi da crociera e manteneva modi deferenti in tutte le sue azioni, cosa che Flora apprezzava, di cui inorgogliva e che probabilmente aveva innescato il suo innamoramento. Arrivò poi Margherita sorella di Pierre con suo marito Giampaolo e la loro figlia Annalise di dodici anni e poi Clara, la sua fidata infermiera per tanti anni con il suo Augusto, medico di base ed infine Francesco, l’assistente sociale, un ragazzo d’oro che Flora avrebbe voluto tanto veder sistemato con una brava ragazza ma rimaneva celibe e non azzeccava una relazione stabile nonostante fosse alla vigilia dei suoi quarant’anni.
A fine cena, fu Francesco il primo a grattare con il manico del cucchiaino il -gratta e vinci- dopo averlo appoggiato su un tovagliolo di carta per non disperdere la polverina argentata e fu l’unico a vincere venti euro forse in ottemperanza al motto che chi è sfortunato in amore è fortunato al gioco come si apprestò a sottolineare Flora con poca diplomazia.
Si aprirono poi i regali mentre Annalise ticchettava sul cellulare facendo innervosire suo padre. Appena dopo si consumarono i riti consueti degli auguri, dell’ultimo brindisi, degli abbracci e dei saluti e delle promesse di ritrovarsi a breve. Dopo che tutti si furono congedati e furono spente le candele rosse sopra la mensola del caminetto che consumava le ultime braci, un silenzio ovattato si impadronì della casa accompagnato da quella piccola mestizia che segue una bella serata tra amici di vecchia data, una sensazione di appagata tranquillità che precede un sonno ristoratore dopo un giorno ben speso. Al mattino, si accorse che il biglietto vincente di Francesco era rimasto sul tavolo e lui, dopo esserne stato informato, la invitò a riscuotere la vincita perché per il momento non si sarebbero rivisti dato che avrebbe trascorso le feste in Puglia dai suoi. Passato il Natale, Flora mise in borsa il biglietto, arrotolò intorno al collo una pesante sciarpa di ciniglia, infilò i guanti ed uscì con la bici nonostante la temperatura fosse rigidissima ed il cielo bianco minacciasse pioggia se non addirittura neve.
Seduta al bar gustò un caffè macchiato poi, con il cartoncino vincente in mano, si avvicinò al bancone incerta se incassare la vincita o tentare di nuovo la fortuna. Scelse di sfidare la sorte e prese due biglietti da dieci euro che non le fruttarono nulla, allora, attratta da quelle strisce colorate che pendevano alle spalle del barista, come una bambina al luna park, ne acquistò altri due da dieci euro ciascuno ma, di nuovo, non sortirono alcuna vincita. Pedalando verso casa pensò che se ne avesse presi quattro da cinque euro le possibilità di vincita si sarebbero raddoppiate e allora senza riflettere troppo iniziò a pedalare più veloce, alla rotonda inverti la marcia e tornò al bar ad acquistare quattro nuovi biglietti. Nuova delusione più forte delle prime ma rigenerato entusiasmo nel pensare che la volta buona in genere si presenta dopo molti tentativi falliti. Ci mise poco a realizzare che poteva avere in tasca sessanta euro, poteva, ma non li aveva.
Il giorno 28 dicembre aveva dissipato disinvoltamente sessanta euro, ferma al semaforo rifletteva sulla cosa quando le si stamparono in mente tre numeri da poter giocare al lotto: ventotto, dodici e sessanta. Appena giunta a casa segnò quei numeri sul calendario, cifre piccoline come un segno del destino che solo lei doveva sapere e decodificare.
Il giorno dopo, Pierre sarebbe andato in un centro specialistico per una visita ortopedica a causa di un problema al ginocchio e discreto come era, non ne voleva sapere di essere accompagnato ed allora Flora pensò di uscire e regalarsi prima, un paio di ore a fare shopping in centro, poi, una sosta nella piadineria della sua amica Mara, cose che fece ma solo dopo aver giocato il terno su tutte le ruote compresa quella nazionale nella ricevitoria sotto casa. Giocò prima di avventurarsi nei negozi per non rischiare di rimanere senza contante, giocò cinquanta euro che poi rafforzò con altre cinquanta e mentre ritirava le ricevute azzardò una rapida stima dell’eventuale vincita con cui avrebbe potuto acquistare, perché no, addirittura una bella auto nuova sebbene non ne avesse bisogno. La sera, mentre Pierre le parlava del suo problematico ginocchio, dell’innovativo intervento di protesi che avrebbe fatto in tempi brevi nella speranza di risolvere il problema, Flora, con un egoismo che non le apparteneva, guardava impaziente l’orologio in attesa dell’estrazione del lotto. Non rispose neanche al cellulare e lo tacitò al primo squillo, mangiò poi con una insolita ingordigia alcune fette di salmone e poi, appena Pierre si ritirò nello studio per avere dal computer ulteriori ragguagli sulla sua patologia, lei si precipitò sul cellulare a controllare le estrazioni della sera. Intercettò subito il sessanta sulla ruota di Bari anticipato da diciotto e seguito da venti, avverti una stretta al torace e una vampa di calore che salendole in viso, la destabilizzava. La vincita sfiorata era come una mezza vittoria che faceva presagire sviluppi futuri, quasi c’ero, si ripeteva, quasi c’ero! Non concluse di aver perso ma si convinse di aver quasi vinto. Si addormentò con molta fatica accanto a Pierre che russava da un pezzo aiutato da un po’ di melatonina.
Due giorni dopo accompagnò Pierre in ospedale per l’intervento, aspettò che terminassero le pratiche di rito poi, insieme fecero colazione al bar ed infine si salutarono con un caldo abbraccio e qualche battuta utile a ristabilire il buonumore.
Si avviò verso casa che era quasi ora di pranzo ma prima di rincasare si fermò al panificio per comprare una baguette e un vassoio di tozzetti alle mandorle.
Lì incontrò Barbara, la madre di Flavio, il bambino gracile che prendeva una tonsillite al mese e cresceva pallido e smunto. Ora, diceva Barbara, lo vedesse dottoressa, è alto un metro e ottantacinque e gioca a calcio. Avrebbe voluto condividere l’entusiasmo di Barbara ma ogni sensazione fu scavalcata dalla percezione di due numeri, uno e ottantacinque, che gli si stamparono in testa inducendola a chiudere la conversazione con la solita cordialità ma in tempi insolitamente brevi.
Si diresse verso la ricevitoria ma si accorse di avere in borsa poco contante, passò allora al bancomat a ritirare qualche banconota e mentre si avviava verso casa fu attratta da una scritta Compro oro che identificava un piccolo locale a piano terra con la serranda non del tutto sollevata e molto arrugginita. Giunta a casa, aprì con vigore il cassetto del comò, ne estrasse un bracciale d’oro, a torciglione, lo girò e rigirò tra le mani realizzando che da tempo non lo metteva, che i ladri avrebbero potuto rubarglielo e che quindi poteva venderlo ed investire il ricavato.
Così fece e mentre argomentava i suoi pensieri, un odore di bruciato proveniente dalla cucina la avvertiva che il suo passato di verdura, completamente evaporato, aveva lasciato una pellicina nerastra sul fondo della pentola. Cercò di rimediare mangiando uno yogurt, in fondo, pensò è bene tenersi leggeri, ogni tanto.
La mattina, dimenticando di chiamare Pierre ed informarsi sulla sua degenza e autoconvincendosi di non avere tempo per andarlo a trovare come gli aveva promesso, salì sulla bici e dopo pochi minuti entrò nel piano terra del Compro oro. Sul bilancino di un uomo dalla voce rauca con occhiali calati sul naso affilato, finì il bracciale a torciglione che un tempo le piaceva tanto ed anche un anello che strada facendo si era sfilato dal dito, un anello a serpentina con piccoli zirconi che unitamente al bracciale fruttò la meschina cifra di cinquecento euro con cui rigiocò gli stessi numeri perché aveva sentito dire che non bisognava desistere e andavano giocati almeno tre volte, questa volta giocò un ambo formato da uno e ottantacinque e poi acquistò anche trenta -Gratta e vinci -per avere più possibilità di vincere dal momento che ormai la fortuna non poteva essere che ad un passo da lei e la fortuna, si sa, premia l’impegno, la tenacia e la perseveranza.
La sera, in attesa dell’estrazione del lotto mentre sgranocchiava delle mandorle ed il cellulare inutilmente squillava, collocò uno vicino all’altro i biglietti sul tavolo quasi a coprire l’intero ripiano, poi li sollevò con delicatezza come quando con mano gentile si accostava ai suoi piccoli pazienti carezzando i loro visetti dolci che, magari stizziti da una paletta in gola, scalciavano come asinelli. Li grattò ad uno ad uno con infinita lentezza cercando di intravedere la sinopia dei numeri e sobbalzò sudaticcia sulla sedia quando pensò di aver accoppiato dei numeri, quindici , sei e otto ma rimase ingannata dalla basi panciute dei numeri molto simili tra loro, infine, dalla polverina argentata emerse una vincita di cento euro, all’inizio scambiate per mille euro che la delusero e consolarono allo stesso tempo.
Il giorno seguente, di prima mattina acquistò dei dolcetti e andò a trovare Pierre che, scrutandola in viso le chiese se mangiasse e riposasse abbastanza perché la trovava un po’ smagrita, lei lo rassicurò sfoderando un sorriso tirato che non convinse l’uomo ma permise di chiudere repentinamente il colloquio neanche iniziato. Tornando a casa, dopo che ebbe riscosso le cento euro, realizzò, guardandosi intorno che c’era un gran disordine ovunque e che occorreva darsi da fare per sistemare lo studio e la camera visto che non rifaceva il letto da giorni. In frigo solo sottilette, limone e marmellata, allora scese sotto casa e nella pizzeria napoletana si fece sfornare una bella margherita intenzionata a mangiarla bella calda, quando si ricordò di non avere in casa la birra, indispensabilmente associata alla pizza e allora entrò in un bar e chiese una bottiglia di birra di una nota marca e mentre il barista si apprestava a servirla notò, appesa ad una colonna, la fotocopia ingrandita di un -gratta e vinci- con vincita realizzata pochi giorni prima di ben cinquecentomila euro, poi altre fotocopie ancora pubblicizzanti vincite più contenute ma egualmente sostanziose, fu come se un alcolista vedesse proferirsi un bicchiere di vino e tanto bastò a catalizzare la sua attenzione e ad indurla ad uscire con altri trenta biglietti, per una spesa di oltre duecento euro di cui la birra rappresentava solo un modesto due per cento. Se domani torna Pierre, pensò, devo sistemare i conti, azzerare possibilmente le perdite, pareggiare le entrate e le uscite, ammortizzarle almeno ma in realtà le uscite incontrollate non erano neanche più quantificabili e questo era in fondo un ottimo escamotage per non inciampare nei sensi di colpa, poteva, infatti, sempre autoconvincersi di aver speso poche decine di euro come faceva quando andava dal parrucchiere o comprare qualche crema per il viso, in fondo erano soldi suoi guadagnati e meritati e non si trattava di ledere la salute con alcool droghe o sigarette, in fondo il gioco è innocuo e connaturato all’essere umano sin dalla nascita e quante volte aveva visto ritornare sui visetti dei suoi piccoli pazienti il sorriso solo gesticolando con una palla o cullando una bambola! Questa volta è necessario tentare la fortuna si andava ripetendo convulsivamente, poi basta, giuro e rigiuro che non gioco più. Ma il gioco era lì prepotente e sovrano e chiedeva ora la vittima illustre: sul comodino l’orologio di Pierre attrasse la sua attenzione e quel Rolex lucente ebbe il potere di attrarre come una calamita la parte più fragile di Flora, l’identità più vulnerabile, il residuo infantile che la dipendenza aveva colonizzato, snaturato, traviato e strangolato. Con respiro asfittico e mano tremante agguantò il Rolex, lo mise in un sacchetto da congelatore e lo ripose nella tasca della borsa chiudendo accuratamente la chiusura. La mattina sarebbe tornata al negozio al piano terra per vedere il da fare.
Intanto prese dall’armadio lenzuola pulite, rifece svogliatamente il letto, lavò sbrigativamente i pavimenti, spolverò i mobili e diffuse nell’aria qualche spruzzo di essenza di muschio bianco che le piaceva tanto. Poi, gratificata dal lavoro fatto e aiutata dalla stanchezza si sedette, estrasse i biglietti dalla borsa e tentò di nuovo la fortuna, a fine operazione il consuntivo si mostrò davvero magro: aveva vinto altri quattro biglietti Ingoiò saliva e rammarico, prese i biglietti e li tagliuzzò ad uno ad uno fino a raggiungere dimensioni così piccole da poterli tenere nel palmo della mano poi andò sul balcone e pigiato l’accendino osservò la piccola fiamma che consumava la sua mancata fortuna attivando come un rito propiziatorio contro la sfiga, forse il fuoco purificatore l’avrebbe allontanata per sempre. Rientrata in salotto, accese la tv ed essendosi dimenticata di fare spesa si addormentò sbadigliando di fronte ad un documentario sui pinguini tentando di mangiare pane e noci, sorseggiando un prosecco.
La mattina, mentre stava uscendo per andare dalla parrucchiera per farsi bella per il ritorno di Pierre che sarebbe avvenuto nel tardo pomeriggio e sistemare la faccenda del Rolex, squillò il cellulare, era Pierre che con voce gioiosa le comunicava il rientro anticipato a casa, avrebbe preso un taxi per evitarle di infilarsi nel traffico cittadino, le chiedeva solo di aspettarlo in strada per aiutarlo a salire in ascensore.
Flora aprì lo sportello del frigo che era semivuoto, disdisse l’appuntamento dal parrucchiere poi, infilate le scarpe ed il piumino, scese al supermercato sotto casa a fare un po’ di spesa.
Mezz’ora dopo, verso mezzogiorno il taxi si fermò sottocasa, lei scese, aprì la portiera dell’auto, abbracciò Pierre ed insieme al tassista lo aiutò a salire in ascensore, nel breve tragitto fino al terzo piano i loro sguardi si incontrarono e parlarono come solo con gli occhi si può fare, senza mentire, senza mediare.
Lo sguardo emaciato di Pierre raccontava la sofferenza taciuta e sopportata, quello di lei, uno smarrimento non bene identificabile. Seduti a pranzo, uno di fronte all’altro, mettevano a nudo un disagio palpabile, fatto di sguardi profondi intervallati da silenzi pesanti. Flora, mentre sorseggiava il decaffeinato di fine pasto, affondò i suoi pensieri nel passato, richiamò alla memoria e al cuore, ovvero ricordò gli anni trascorsi con Pierre, il loro incontro l’entusiasmo di vita, la passione risvegliata, i regali , le risate, le gentilezze, i viaggi ….
Il viso stanco del suo uomo ora le chiedeva solo di restituirle un po’ di quelle premure, di quelle attenzioni e lei, con il suo Rolex nella borsa lo stava tradendo, in un momento di grande fragilità gli affondava il coltello nella schiena. Pierre ruppe il silenzio per chiederle gentilmente un grappino e poi le disse di aver sognato la notte che qualcuno gli aveva rubato il Rolex dal momento che non lo vedeva al polso ma che poi si era tranquillizzato pensando di averlo lasciato a casa, al sicuro. Flora si sentì scaricare addosso come un fulmine che la attraversava dalla testa ai piedi, il viso le divenne di fuoco, le mani sudate, lei la dottoressa stimata era una ladra, e anche bugiarda perché chissà quante bugie avrebbe dovuto inventare per giustificare a Pierre la scomparsa del suo orologio!
Si alzò, andò in bagno poi in camera, afferrò la borsa, estrasse l’orologio e lo posizionò sul comodino poi corse al computer e selezionò musica jazz di Glenn Miller che tanto le piaceva, poi rivolgendosi a Pierre svolazzò per la stanza come in una danza liberatoria cercando di coinvolgere il suo sorpreso e attonito spettatore.
A sera, mentre insieme leggevano la lettera di dimissione di Pierre in cui si prevedeva un periodo di fisioterapia riabilitativa (che si presumeva impegnativa e fastidiosa) in un centro fuori città, Flora fece di tutto per rassicurarlo sul buon esito delle cure, sul recupero che sarebbe stato breve, escludendo categoricamente esiti invalidanti. Andremo in crociera, disse Pierre, a primavera andremo di nuovo in crociera, rispose Flora, mentre guardavano un pò di tv prima di addormentarsi. Ma mentre lui, aiutato da un analgesico prendeva sonno rapidamente, Flora con occhi sbarrati fissava le ombre sul soffitto e lentamente passava in esame gli ultimi giorni trascorsi come se a viverli non fosse stata lei, come se fossero frutto di un racconto fatto da altri e avvertì una spersonalizzazione profonda, uno sdoppiamento da Psyco, un disagio indecifrabile e in quantificabile.
Si alzò dal letto per non disturbare il sonno ristoratore di Pierre, indossò la calda vestaglia di pile, si preparò una tisana alla melissa con miele di tarassaco e poi si sedette.
Lo sguardo, improvvisamente si fermò su un lembo di carta dorata che sporgeva dal cassetto della credenza, si alzò, lo aprì e ne estrasse una busta voluminosa che conteneva un poster raffigurante La primavera del Botticelli, c’era un biglietto rosso con la dedica che la accompagnava: a zia Flora, espressione anche lei di primavera e di bellezza, Annelise. Quel regalo di Natale di sua nipote sottovalutato e sgarbatamente dimenticato, ora, in quel momento era come acqua sorgiva per la sua gola secca, lo girò e rigirò tra le mani, poi improvvisamente due lacrime rese scure dal rimmel, precipitarono giù fino ad infrangersi sul collo, si ricordò di sua madre, insegnante di educazione artistica che da grande estimatrice del Botticelli quale era, le aveva dato il nome di Flora, la sua più bella creatura, perché anche lei ne ricevesse grazia e bellezza infinita.
Alla luce del giorno che si annunciava tra i panneggi della tenda del salotto scomparivano improvvisamente fantasmi e smarrimenti; il rumore della moka in cucina, il fracasso dei camion della spazzatura in strada, il viso stropicciato davanti allo specchio, il rumore dell’ascensore attivato dal vicino che rientrava dal turno di notte, tutto contribuiva a comporre quello straordinario puzzle di vita normale che a volte produce assuefazione e monotonia ma proprio in quella straordinaria normalità si nasconde il senso stesso del vivere quotidiano, la nostra dignità e la nostra bellezza che varia a seconda delle stagioni e sta a noi trasformarla in una eterna primavera.
Flora ritornò in camera e si adagiò nel letto caldo, accanto a Pierre che dormiva supino, ne osservò curiosa e amorevole le rughette a zampe di gallina intorno agli occhi e l’impercettibile movimento delle palpebre, lo trovò ancora bello, di quella bellezza matura non alterata ma nobilitata dagli anni e dalle esperienze di vita. Pochi minuti dopo lui si svegliò lamentandosi con una smorfia del dolore al ginocchio, allungò la mano verso di lei come era solito fare e le disse: «Ho dormito veramente bene stanotte nel mio letto, e tu?».
«Anche io», rispose Flora, «come un ghiro, a primavera ci andiamo in crociera, vero Pierre?».
«Si ci torniamo», rispose lui.
«Giuramelo» ribatté lei.
«Lo giuro», concluse lui. Poi, lei scese dal letto e dopo aver spalancato la tenda, si diresse verso il comodino, sollevò l’orologio, ci infilò la mano e con movimenti dolci se lo assestò ben bene al polso, poi osservandolo e rivolgendosi a Pierre, disse: «è bello, veramente bello».
«Che ti devo dire», rispose lui, «io, senza il mio orologio, non ci saprei proprio stare!».
Scritto da Letizia Capezzali