L’osteria della Pace
Il carabiniere anziano stava facendo compiere al giovane compagno, appena arrivato in città, un giro di ispezione nei quartieri assegnati alla loro sorveglianza.
“Questo“ disse ad un certo punto, indicando una porta con vetrina che si era parata in quel momento davanti a loro, “è un posto che ti darà parecchio da fare…”
Il giovane scrutò attento il luogo.
“Osteria… della Pace?” lesse sull’insegna piuttosto sbiadita che sormontava l’entrata del locale.
“Esatto. Ma di pace, lì dentro, ce n’è sempre poca…”
Si trovavano in una piazzetta del centro storico, a poche centinaia di metri dall’isola pedonale lungo la quale si allineavano i negozi principali. Ma lì, sembrava di essere lontani nello spazio e nel tempo anni luce dal resto della città. Perfino le stelline dorate di Natale, che pendevano dai fili tirati fra i balconi, parevano incongrue, misere, solitarie. Soprattutto in confronto alle rutilanti cascate luminose che ingioiellavano sfacciate i corsi principali.
Imbruniva; nel breve pomeriggio invernale, l’unica luce che rischiarava quell’angolo medioevale incastonato fra le case proveniva dall’interno dell’osteria.
Mentre si guardavano intorno, il carabiniere anziano parve colto da un’idea improvvisa.
“Adesso vieni qui” disse furtivo, prendendo il compagno per un braccio, “nascondiamoci un momento in quel portone. Vediamo se succede qualcosa, così capirai meglio. L’osteria è retta da Margherita, una donnina molto particolare…”
“Una donna?” stupì il carabiniere giovane, seguendo un po’ riluttante il compagno nel riparo indicato. “E com’è, giovane e… scostumata?”
L’anziano ridacchiò.
“Giovane sì. Scostumata non saprei, non più di tanto comunque. Bella senz’altro. Ma la sua particolarità è un’altra. Se abbiamo fortuna vedrai…”
La coppia di gendarmi rimane in silenzio, non vista, nell’ombra di un androne buio per qualche minuto. Il silenzio della piazzetta è cullato soltanto dal lontano brusio della città, un sottofondo di motori, voci, risate, qualche colpo di clacson. La sirena lamentosa di un’ambulanza.
Di lì invece non sta passando quasi nessuno.
Ad un certo punto però:
“Ecco, ecco. Forse ci siamo…” fa il carabiniere anziano sottovoce.
Nella piazzetta era comparso un uomo piuttosto male in arnese, vestito in modo trasandato, che trascinava una gamba e appariva un po’ barcollante.
“Quello è Barella. Anche lui imparerai a conoscerlo…”
“Barella? Perché Barella?”
“Ma perché ogni due per tre finisce al Pronto soccorso, pieno come un uovo. Ai miei tempi forse si sarebbe soprannominato Cellulare, perché l’avremmo portato in guardina a smaltire le sue sbornie. Ma adesso tocca farlo ricoverare in ospedale. Cosa vuoi, tempi moderni…”
Mentre i due parlavano sussurrando, l’uomo si era approssimato alla porta dell’osteria, e senza indugio stava cercando di aprirla, se pur con fare incerto, tentando di superare senza danni il gradino d’ingresso.
Prima ancora che fosse riuscito a portare a termine la manovra, dall’interno una voce femminile decisa lo investì:
“Barella, sei già ubriaco! Non venirmi a chiedere da bere perché non te ne dò. L’ultima volta ho pulito due ore tutto quello che mi hai vomitato sul pavimento…”
Senza darsi per inteso di quella ruvida accoglienza, l’uomo era tuttavia pervenuto a entrare nel locale. Prima che la porta con le tendine a quadri si richiudesse, il carabiniere più giovane scorse la donna – Margherita- in piedi dietro al banco: una rossa imperiosa, dagli occhi fiammeggianti e il portamento eretto, perfettamente integrata – pareva – al suo ruolo di ostessa.
“Ah però” commentò il milite “se anche il resto è come la parte superiore, è un gran bel pezzo di donna…”
L’anziano sogghignò.
“Te l’ho detto. Ma non è ancora la sua particolarità più grande…”
Dal nascondiglio dove si erano rifugiati, l’interno del locale si scorgeva male. Videro comunque il nuovo venuto arrampicarsi a fatica su uno sgabello davanti al bancone, e indicare con un gesto stanco della mano una delle bottiglie alle spalle della padrona.
Questa dovette rinnovare il suo diniego, perché l’uomo ripetè con maggior decisione il suo gesto.
Gli altri avventori presenti probabilmente stavano assistendo divertiti o indifferenti a quel che stava accadendo; quando la porta si era aperta, se ne erano scorte le gambe e i piedi che sporgevano dalle sedie poste davanti ai tavolini lungo la parete.
L’ubriaco non si rassegnava, come tutti gli ubriachi, ai dinieghi dell’ostessa, e i toni delle voci cominciarono ad alzarsi, trapelando man mano sempre di più attraverso la vetrina chiusa.
Ad un tratto si udì il rumore di una sedia smossa, e una nuova figura maschile si affiancò a Barella, prendendolo per le spalle con fare protettivo e tranquillizzante.
L’uomo però evidentemente era molto di cattivo umore, perché respinse con violenza l’abbraccio. Al che il soccorritore della bella ostessa mostrò di offendersi non poco, e la sua presa per le spalle dell’ubriaco si trasformò in una bella spinta che per poco non mandò l’altro per le terre.
“Andiamo?” chiede ansioso il carabiniere giovane all’anziano.
Ma viene fermato con un gesto imperioso della mano.
“No! Se vuoi vedere la nostra Margherita all’opera, aspetta. Però teniamoci pronti…”
In quella, la donna compare dietro la vetrina tra i due litiganti, che si stavano furiosamente mandando a quel paese l’un l’altro con epiteti che filtravano attraverso i vetri appannati, minacciando -per quanto l’alcol che entrambi avevano nelle vene lo permettesse – di venire alle mani senza pietà.
Qualche passante gira la testa verso l’osteria, scuotendola poi subito dopo, prima di allontanarsi accelerando il passo.
Margherita intanto sta tenendo testa ai due contendenti dividendoli con le mani.
“Ma non ha paura di prendersele?” osserva sempre più agitato il carabiniere giovane, fremendo per andare in soccorso della bella donna in pericolo.
“E’ proprio questa la sua particolarità, che volevo farti ammirare” risponde il compagno, facendo un primo passo verso la piazzetta, mentre tiene d’occhio la situazione all’interno del locale. “Lei NON HA PAURA DI NIENTE! MAI. E’ una qualità – capirai – non da poco nel mestiere che Margherita ha ereditato dai suoi, morti in un incidente d’auto cinque o sei anni fa. Però la espone a dei pericoli grandi.
Per esempio, una volta aveva rifiutato da bere a un ubriaco che non conosceva, uno non di qui. Erano rimasti soli per l’ora tarda, di sera. E bene: se non ci avesse chiamati un vicino, uscito per caso a far pisciare il cane, forse l’avremmo trovata il giorno dopo a pezzettini. Per quanto…”
L’alterco sembra entrato in una fase di stallo. Le tre figure sono come pietrificate, e anche le voci sembrano meno vive.
“Quando siamo entrati nell’osteria” prosegue quindi con calma il racconto il carabiniere anziano “lei era appesa a un gancio con un laccio di grembiule al collo: ce l’aveva messa il bruto per soffocarla un po’, e farci poi i propri comodi senza farsi graffiare più: aveva infatti tutta la faccia piena di sangue, e si stava abbassando i pantaloni. Secondo me, comunque, per come si dimenava poteva anche essere che lei sarebbe riuscita a liberarsi prima che quel deficiente si fosse sbrogliato con i bottoni della sua patta, perché era pesto di brutto, e ci stava cincischiando da un bel po’…”.
“Meno male che siete arrivati in tempo.”
Il compagno ridacchia.
“Quella come altre volte. Meno male, sì. Ma sai cosa ci ha detto lei? Che non riusciva quasi più a tirare il fiato?”
“No. Cos’ha detto?”
“Che diavolo volete? Mi difendo da sola. Stavo per liberarmi, e a quello lì lo sistemavo io! Ecco quello che ha detto. Non si rendeva conto del guaio in cui era finita. E il giorno dopo, stava bella bella al suo posto, come se nulla fosse successo…”
Intanto, all’interno del locale la scena aveva ripreso movimento. Ora si vedeva, e si sentiva, che la donna stava faticando non poco a mantenere il controllo della situazione.
“Andiamo va’” dice quasi a malincuore il carabiniere anziano. “Eh, non è il caso di correre…” aggiunge subito dopo verso il compagno, che era scattato come una molla. “Tanto, non ti ringrazierà mica, neanche a te”.
All’aprirsi della porta da parte dei due rappresentanti delle forze dell’ordine, il tumulto come d’incanto si seda. Barella, che ha l’occhio clinico per queste cose, si lascia ricondurre docilmente sul suo sgabello, dove siede malfermo. Il suo antagonista, meno esperto, continua a inveire contro di lui allontanandosi lentamente, e lampeggia dagli occhi promesse di truce vendetta.
Margherita, proprio come aveva predetto il carabiniere anziano, non appare particolarmente scossa dall’accaduto.
“Sei nuovo te?” chiede al giovane in divisa, scrutandolo attenta, e senza nemmeno il fiatone per gli sforzi di poco prima.
“Gli sto facendo fare un giro nel quartiere” spiega il compagno serafico “e siamo capitati qui proprio al momento giusto…”
“Lo volete un caffè?” domanda Margherita con aria indifferente.
I due carabinieri ai accomodano al banco.
“Stavo spiegando al mio collega” riprende l’anziano mentre tiene d’occhio l’ubriaco e l’altro contendente, che si è accomodato a uno dei tavolini continuando a brontolare, “che questo è un posto che gli darà piuttosto da fare…”
Servendo i caffè, la giovane apostrofa i due uomini con decisione.
“Non succede niente più di quel che capita in tanti altri bar. Salvo che io osservo le leggi, e non dò da bere agli ubriachi…”.
E con questo fulmina il povero Barella, che sembra inebetito.
“Perché non hai paura di loro”.
“IO non ho paura di niente e di nessuno!” replica fieramente Margherita.
“S-sì” risponde il carabiniere anziano. “Questo però a volte è un problema, no? Un po’ di cautela, di timore, ti farebbe evitare dei guai. Per esempio, se a volte ci chiamassi prima che scoppino i casini, non sarebbe meglio? Invece di costringerci a gironzolare cento volte qui intorno tra sera e notte, perché dobbiamo essere sempre noi a intervenire per primi?”
La donna alza le spalle.
“Non ho paura, e so cavarmela da me. Comunque… grazie per il vostro intervento. Ora vi portate via Bar…”
In quel momento però, l’ubriaco si lascia andare di botto sul pavimento, svenuto. L’unica cosa da fare rimane quindi chiamare un’ambulanza, per condurre una centesima volta lo sfortunato al Pronto soccorso.
Salvo che, quando il personale sanitario fa il suo ingresso, e comincia – piuttosto di malavoglia- le manovre per trasportare l’uomo all’ospedale (“Un’altra volta? Tanto poi…”), questi si sveglia, e rifiuta ogni soccorso, riuscendo a mettersi bene o male seduto.
“Allora? Che facciamo adesso?”
“Io qui non ce lo voglio!” dichiara recisa l’ostessa.
Ma a questo punto Barella la guarda fissa in volto, e d’improvviso si mette a piangere. Grosse lacrime prendono a scorrergli sulle guance, senza che lui faccia nulla per arrestarle.
“Oh no!” esclamarono più o meno insieme il carabiniere anziano e gli infermieri. “La ciucca triste no, per favore…”
E lì, l’ubriaco -senza smettere di piangere – li abbracciò tutti con un largo gesto, prima di soffermarsi un’altra volta sulla donna dai capelli rossi.
“Voi…” cominciò ad articolare “voi mi volete tutti male. Solo lei… lei mi vuole bene. Difatti, io l’ho capito, non voleva più farmi bere per me, per la mia salute. Voi invece…” e fulminò con lo sguardo truce uno dopo l’altro le guardie e i barellieri “voi mi volete sbattere in galera, o portarmi all’ospedale, che è la stessa cosa…”
“Sì, sì…” proferirono con fastidio i due infermieri; “senti, non farci perdere tempo. Vieni con noi, o te ne vai con loro?”
Loro erano i due carabinieri, che però non fecero una mossa, in attesa degli eventi.
L’ubriaco tornò a indicare l’ostessa.
“Io sto con lei…”
La donna alzò gli occhi al cielo. Poi tentò una nuova carta.
“Senti” disse con voce e atteggiamento più dolci e comprensivi “io non ho niente in contrario se te ne stai lì buono e non attacchi briga col terzo e col quarto. Ma se chiedi di nuovo da bere, o ti metti a litigare, giuro che ti butto fuori e ti lascio lì, al freddo e al buio…”
Lo sguardo che l’uomo rivolse alla barista fu a questo punto quello di un bambino impaurito dalla madre minacciosa.
“Non mi muovo” promise smettendo di piangere, e spalancando gli occhi. “Giuro!”
E poi aggiunse, con un accento che avrebbe intenerito un toro:
“Ma non mandarmi via…”
Guardie, infermieri e Margherita si scambiarono uno sguardo d’intesa.
“Noi però tra un po’ ripassiamo” disse in tono fermo il carabiniere anziano. “Non combinare guai…”
La risposta fu un chinare rassegnato della testa.
“Hai visto?” chiede poi il carabiniere anziano al compagno mentre, terminato almeno momentaneamente l’intervento e licenziata l’ambulanza (con grande sollievo del personale in bianco), sboccano nell’isola pedonale, zeppa di gente, a quell’ora intenta agli acquisti di Natale. “Quella è Margherita, l’ostessa della Pace…”
Il giovane si gratta la testa.
“Ho visto, sì. Ma è sempre stata così? Una guerriera?”
L’altro sospira.
“Io l’ho conosciuta ragazzina, ed è sempre stata così. I genitori erano anche preoccupati: perché, te ne sei reso conto, essere senza paura non è come avere coraggio: lei proprio non avverte i pericoli. Così finisce per mettersi nei pasticci. Una volta, da bambina, al campeggio estivo l’hanno trovata nel letto di un torrente perché si era calata da un burrone impossibile, e ci sono voluti i pompieri con l’elicottero per recuperarla. Un’altra volta, sempre al campeggio, è finita dentro la tana di una volpe per inseguire un coniglietto… Dopodichè non ce l’hanno voluta più, agli scout. E gli altri spaventi che si sono presi, i suoi poveri papà e mamma…”
“Un carattere incredibile…”
L’anziano scuote la testa.
“Non è solo carattere. Quello resiste alla paura, la supera.
Qui c’è qualcos’altro. E’ una specie di malattia. Sai come quelli che si agitano sempre, e sono distratti, saltano da un’idea all’altra ogni momento. A quelli gli manca la calma, la pazienza, la concentrazione, che so io.
Ecco, a Margherita manca il senso della paura. Quella volta che ti ho raccontato, quando l’abbiamo salvata per un pelo, poi è stata portata in osservazione all’ospedale. E in tutta confidenza un amico del Pronto Soccorso mi ha rivelato che su di lei c’è una cartella clinica spessa così: sembra siano pochi al mondo a soffrire di questo disturbo: dipende da qualcosa che non funziona in certe zone del cervello, non ho ben capito se dalla nascita o se gli viene dopo. O tutt’e due. Boh? Comunque, non è una bella cosa…”
No, non era una bella cosa, pensò il carabiniere giovane mentre osservava la gente che correva da un negozio all’altro sotto le luminarie festose di Natale.
Poteva sembrarlo, a prima vista, ma non era così.
Povera donna: chissà quante volte gli sarebbe toccato andarla a “salvare” dai guai che il suo mestiere di ostessa, e il difetto nel cervello, poteva procurarle.
“E l’altro?” chiese.
“Eh, l’altro… L’altro ormai è un caso senza speranza”.
Però, quando un’oretta più tardi riaprirono la porta dell’osteria, il “caso senza speranza” se ne stava seduto a uno dei tavolini davanti a un uomo suppergiù della stessa età, dall’aria massiccia e ferma, che pareva tutto concentrato a fargli un lungo discorso, sotto gli occhi vigili della proprietaria del bar.
Barella ascoltava con la testa china.
“Dino!” esclamò il carabiniere anziano, rivolto al nuovo venuto. “Come stai? Che ci fai qui?”
L’uomo alzò la testa sorpreso; ma una volta riconosciuto il carabiniere, si tirò su con un largo, aperto e franco sorriso che gli illuminava tutto il volto.
La stretta di mano tra i due fu forte e calorosa.
“Ma guarda che sorpresa! E’ una vita che… Sto bene, adesso” fece con voce tonante Dino.
“Ecco” proseguì subito dopo, rivolto nuovamente a Barella, e indicando il milite. “Fatti spiegare da lui, se non ero come te, una volta…”
Le due guardie presero una sedia ciascuno.
“E’ vero” confermò l’anziano. “Dino ne ha combinate di tutti i colori. Entrava e usciva dall’ospedale, proprio come te. E certe botte…
Com’è che ne sei venuto fuori, Dino?”
L’uomo sospira, ridivenendo serio.
“Eh, è stata dura. Si vede che qualche angelo mi ha messo una mano sulla testa. E’ stata una suora, sai? a darmi il via…”
Prende a raccontare, con evidente emozione.
“Ero disperato, quella sera. Senza un soldo, mi aggiravo cercando qualcosa da mangiare. Sono finito quasi per sbaglio sulla porta di un convitto di suore. Volevano mandarmi via…”
Dino si commuove.
“E… poi?”
“Poi” si illumina con un gran sorriso “poi è venuta la direttrice. Ha sgridato la portinaia: se non li accogliamo noi, i poveri, chi li deve accogliere? ha detto. Dategli un piatto di minestra. Mi diedero la minestra, tenendosi a distanza. Ma io guardavo la direttrice: lei si avvicinò, e mi parlò. Eramo giorni e giorni che nessuno mi parlava più: avevano ragione, ero ridotto un rottame. Ma lei non si spaventò. Puzzavo di alcol come una vecchia spugna. Lei mi disse: forse conosco qualcuno che ti può aiutare, torna domani.
Quello, fu il momento che mi cambiò il destino. L’indomani, quando tornai, senza molte speranze in verità, la direttrice mi fece trovare un medico, che era in contatto con una clinica specializzata. Si offrirono di accompagnarmici. E io li lasciai fare…”
Dino si rivolge ora direttamente a Barella, che lo ascolta con occhi imbambolati.
“E’ così che dovresti fare anche tu! Hai sentito cos’ha detto il carabiniere? Io ero esattamente come te, magari anche peggio. Ma ho colto l’occasione, ed eccomi qua…”
“Cosa è accaduto dopo?” chiede la guardia più giovane.
“Durante il ricovero” spiega Dino, “ho conosciuto i Club. Una specie di Alcolisti Anonimi, ma diverso: qui agli incontri di gruppo partecipa tutta la famiglia, e c’è anche un operatore volontario. Dove abiti tu, esistono i Club? mi chiedevano. No, che io sapessi”.
Dino se la ride divertito, dandosi una gran pacca con le mani sulle ginocchia.
“Non c’erano! L’hanno messo su con me e altre due famiglie, il primo Club qui in città, tutta gente inviata dalla direttrice dell’istituto di suore. E da lì, con l’aiuto del SerD, che ha sottoscritto il progetto, e lavora insieme con noi, eccoci qui!”
Il carabiniere anziano sorride.
“Infatti, non ti ho più visto in giro. Da quant’è che non bevi, Dino?”
Un bel gesto con la mano.
“Tre anni! Quasi…”
“E con lui, vi conoscete?” fa il carabiniere giovane, indicando Barella.
Dino fa un gesto vago.
“Mah, ci si conosce un po’ tutti, dopo che entri nel giro… Che giro, eh?
Ma se mi ascolti, caro mio, domani andiamo dal dottore, e poi ti porto al club. Ti aiutiamo a smettere, magari facciamo un ricovero. Io non ti mollo…”
L’ostessa a questo punto interviene ridendo.
“Dino non molla mai nessuno. E’ un mastino, lui…”
“Ma… andate in giro a raccattare clienti?” chiede divertito il carabiniere anziano.
Per tutta risposta Dino tira fuori delle specie di biglietti da visita, e li porge alle due guardie.
Sopra c’è scritto in grande ACAT, con un indirizzo e numero di telefono.
“ACAT?”
“Associazione Club Alcologici Territoriali, o per qualcun altro Alcolisti in Trattamento. Non è importante. Quello che conta è fidarsi e provare.
In molti bar, come questo, ci conoscono, e qualche volta ci chiamano. Come ha fatto Margherita oggi pomeriggio. Tenetene anche voi, potreste indirizzarci qualcuno: ogni occasione è buona per cominciare! Vero Enzo?”
Enzo-Barella assente debolmente con il capo.
Dino scambia un’occhiata furbesca con i due carabinieri e con la donna dietro il bancone.
“Adesso non ti preoccupare, che ci penso io. Dove ti possiamo accompagnare?”
Spunta tra le labbra contratte dell’uomo un indirizzo. E’ già un primo passo.
Dino aiuta il compagno ad alzarsi. Un po’ barcollando, appoggiandosi al braccio che gli viene porto, Enzo saluta con un cenno della mano tutta la compagnia, cercando di abbozzare anche un sorriso, dove si mescolano grazie e scuse.
I due carabinieri e l’ostessa rimangono a guardare la strana coppia che si allontana nel buio.
“Dino è una forza della natura” ripete Margherita. “Tutta la sua energia ora la spende per quelli come lui. E siccome c’è passato, gli danno retta più che a chiunque altro.
E’ una gran persona!”
Una gran persona.
“Non lo si direbbe, vero? Che dentro l’alcol possano esistere storie così…”
Il carabiniere anziano commenta con il collega, mentre attraversano la piazzetta male illuminata, lasciandosi alle spalle l’osteria ora finalmente pacificata.
L’altro scuote la testa.
“Davvero” commenta pensieroso. Poi:
“Credi che ce la farà, uno come Bar… Enzo? Basta farsi agganciare così, per cambiare?”
Il compagno allarga le braccia.
“Cosa vuoi che ti dica? Per Dino è successo, hai sentito: quella suora gli ha fatto scattare qualcosa, una specie di interruttore, che so… Certo, è cambiato in maniera impressionante: grande e grosso com’è, ti assicuro, quando beveva faceva paura. E adesso” sorride “tutta la sua forza la impiega ad andare in giro a prendere per le orecchie quelli come lui, e cercare di riportarli sulla retta via.
Tu mi chiedi se Enzo ce la farà?
Non lo so. Magari non subito.
Bisogna sperare che anche per lui scatti una volta o l’altra quell’interruttore. Il SUO interruttore. E augurarsi che al momento sia presente uno come Dino, pronto a dargli appoggio”.
La coppia di guardie procede in silenzio, sbucando di nuovo nell’isola pedonale.
La folla si è molto diradata, i negozi stanno chiudendo.
“Dai, tra mezz’ora finiamo il turno” dice tutto contento l’anziano.
“Beh” commenta il giovane “ho imparato un po’ di cose, oggi…”
Breve attimo di silenzio. Poi il collega risponde:
“Qualcosa si impara tutti i giorni, sulla gente. Però… bisogna tenere gli occhi aperti, e la mente pronta. E non tutti ce l’hanno, le mente pronta. O non hanno voglia di accenderla…”.
Nell’aria si diffondono musiche natalizie.
Un pensiero colpisce tutte e due le guardie, ma non se lo comunicano: chissà la direttrice dell’istituto di suore, cosa starà facendo in questo momento…
Le vicende e i personaggi di questa storia sono inventati, compresa l’ostessa affetta dalla sindrome di Urbach-Wiethe, un disturbo genetico che compromette il funzionamento dell’amigdala, comportando l’assenza di timore per le situazioni di pericolo.
Tutti. Tranne uno: Dino.
Dino è meno inventato degli altri perché è ispirato a una persona che ho avuto l’onore di conoscere per davvero. Tutti quelli che lavorano in campo alcologico sanno di cosa sto parlando, e cioè di chi decide di restituire il “debito” di gratitudine contratto con l’aiuto inizialmente ricevuto mettendosi a disposizione per cercare di avviare al trattamento gli ex-compagni di bevute, e ogni altra persona per la quale venga richiesto un aiuto.
Alcuni mostrano un autentico carisma, un talento naturale che decidono di mettere al servizio del prossimo. Come Dino.
Questo racconto vuole essere (anche) un omaggio a loro, persone autentiche dalle quali si ha tanto da imparare, molto più che dai libri; proprio come il nostro giovane carabiniere, che stasera forse se ne andrà verso casa rimuginando insospettati pensieri.
Scritto da Alberto Arnaudo