Vite in gioco
E’ fatta!
Giulia uscì dall’ufficio del notaio danzando sulle nuvole: aveva appena formalizzato il passaggio di proprietà di quella che sarebbe stata la sua attività futura: un piccolo bar tabaccheria situato in una zona molto frequentata anche se periferica. C’era perfino un po’ di plateatico sul marciapiede ombreggiato da due grossi platani.
Era da tanto tempo che sognava quel momento.
Aveva adocchiato il cartello che annunciava la vendita dell’esercizio alcuni mesi prima e subito aveva pensato che potesse fare al caso suo. Ci si vedeva in quel simpatico localino a preparare caffè e spremute, scambiare quattro chiacchiere coi clienti, sistemare i tavolini e adornarli con delle piccole composizioni fatte con le sue mani: fiori, piante grasse, sassi, pigne… c’era solo l’imbarazzo della scelta, lei sapeva fare composizioni bellissime che gli avventori avrebbero apprezzato.
Certo, l’interno del locale era tutto da risistemare, così non le piaceva e le pareva poco funzionale.
Qui, vicino alla porta, avrebbe messo il bancone più corto con la cassa. Dietro, i tabacchi e i gratta e vinci. Nello slargo che si apriva sulla parete di fondo, proprio davanti alle scale che portavano ai bagni, potevano stare le slot machine, magari con un bel paravento davanti per non disturbare le persone sedute al tavolo. Sulla parete a sinistra il bancone lungo, dove sarebbero stati esposti i dolci per la colazione, i tramezzini, i paninetti, le polpettine, le insalatone, le focacce e tutte le bontà che avrebbe preparato con le sue mani. In mezzo alla sala, sei o sette tavolini, non troppo vicini per permettere un po’ di privacy ai clienti e sui muri …. I muri sarebbero stati un trionfo di colori, tanti piccoli oggetti di spago, panno, stoffa, sughero e legno per rendere il locale più accogliente e simpatico. Praticamente, il locale sarebbe diventato un prolungamento dell’ego multicolore di Giulia.
Cominciò a pensare al locale sempre più spesso finché non decise che era proprio quello che voleva. Un bel mattino si presentò alla proprietaria e le manifestò il suo interesse. Mettersi d’accordo sul prezzo fu abbastanza facile. In breve, Giulia acquistò il bar e cominciò a progettarne la riorganizzazione degli spazi interni ed esterni.
Era al settimo cielo, anche perché il fatturato del locale, fra tabaccheria, bar e giochi d’azzardo era molto buono. Solo, non riusciva a capire come mai l’ex proprietaria, Teresa, una bella signora sui quarant’anni dal sorriso accattivante, lo avesse messo in vendita. Come si poteva rinunciare ad un affare come quello?
Mah, in realtà non la conosceva affatto, poteva avere mille validi motivi. La cosa non la riguardava. Ora doveva dare una sistemata al locale e partire per una nuova avventura.
Proprio il primo giorno di apertura Teresa arrivò, con un mazzetto di fiori per Giulia. Le fece i complimenti per il nuovo look del locale e si guardò intorno con un po’ di malinconia nello sguardo. “Mi mancherà questo posticino. – disse – Ci ho passato dei begli anni. Quando l’ho aperto in questa zona non c’erano altri bar ed ho subito guadagnato una clientela assidua ed affezionata. Per tanti anni mi ha permesso di mantenere la famiglia e di togliermi anche degli sfizi.”
“Ma allora perché lo hai lasciato?” volle sapere Giulia. “Con la difficoltà che c’è al giorno d’oggi per trovare dei lavori interessanti e retribuiti adeguatamente”.
Teresa rimase zitta alcuni istanti. “Il fatto è – disse – che non sopportavo più di vedere tanti clienti rovinati dal gioco d’azzardo e pensare di esserne indirettamente la causa. Vedere tante persone buttare soldi e impoverirsi comprando gratta e vinci e gettoni per le slot machine. All’inizio pensavo che fosse colpa della loro debolezza perché nessuno li obbligava. Un po’ alla volta ho imparato a conoscere loro e le loro storie ed ho cominciato a sentirmi in colpa. Forse se non avessi aperto il bar qui non avrebbero avuto l’occasione per cadere in questa terribile dipendenza. Oggi sono venuta anche per raccontarti le storie di alcuni di loro. Sono persone che soffrono per la loro situazione ma non riescono a venirne fuori”.
Così Teresa raccontò ad una Giulia un po’ perplessa le storie di tanti clienti che avrebbe conosciuto senz’altro nei giorni a venire.
“Certo – pensava Giulia – sono storie terribili ma nessuno li obbliga a buttare qui tutti i loro soldi. Infine, è un’attività permessa dalla legge”.
Giorno dopo giorno, Giulia diventava sempre più entusiasta del suo lavoro. Il bar era pieno ad ogni ora; i clienti le manifestavano il loro apprezzamento per i suoi prodotti e affollavano i suoi tavolini per la colazione, gli aperitivi, il pranzo, fino a tarda sera. Anche le tre slot machine alloggiate nello slargo erano sempre in movimento, occupate da clienti che passavano lì ore infilando un gettone dopo l’altro nelle macchinette nella speranza di arrivare finalmente a quella vincita favolosa che avrebbe risolto tutti i loro problemi. Se capitava che qualcuno arrivasse a vincere cifre modeste, il fortunato invece di gioire reinvestiva subito i soldi in altri gettoni: sicuramente la vincita che gli avrebbe cambiato la vita era lì, ad un passo, si trattava di perseverare.
I primi giorni Giulia non ci badava nemmeno ma col passare del tempo quelle persone davanti alle macchine la fecero sentire sempre più a disagio. Quei gettoni che gli passava in continuazione sembravano sempre più pesanti. Quando venivano da lei per chiederne ancora cercava sempre di intrattenerli, di parlare con loro, di far passare il tempo nella speranza che cambiassero idea e se ne andassero a casa. Ma no, era impossibile distoglierli dalla loro fissazione. I più restavano fino alla chiusura.
Guglielmo era uno di loro. Aveva circa cinquant’anni ma ne dimostrava venti di più. Teresa le aveva raccontato di lui. Da giovane, era cassiere in una banca, molto apprezzato per la sua precisione e per la cordialità con cui trattava i clienti. Aveva messo su una bella famigliola con Lia ed avuto tre bambini belli e vivaci. Lo stipendio di Guglielmo bastava per tutti. Un giorno andò dal tabaccaio per comprare una marca da bollo. Al posto del resto il negoziante gli propose ridendo di prendere un gratta e vinci e lui accettò. Vinse una piccola somma e tornò a casa tutto allegro. Il giorno dopo ritornò dal tabaccaio e acquistò altri biglietti che grattò lì in fretta e furia, sperando di essere ancora fortunato. Questa volta non vinse niente ma da allora prese l’abitudine di frequentare ogni giorno il tabaccaio per tentare la fortuna, buttando cifre sempre più alte. Se non vinceva nulla, cercava nelle tasche altro denaro da investire; se per caso vinceva qualcosa, subito buttava il gruzzoletto in altri biglietti. Piano piano questa sua abitudine lo indusse ad intaccare i risparmi della famiglia che si assottigliarono sempre più, fino ad azzerarsi. Quando la moglie, controllando gli estratti conto, capì in che voragine era finito il marito lo scongiurò di affidarsi ad uno psicologo per venirne fuori ma senza risultato. Guglielmo pensava di essere in grado di uscirne da solo ma non era così. La dipendenza era ormai troppo pesante. Dai gratta e vinci era passato alle slot machine e anche queste gli avevano catturato l’anima. Così, un bruttissimo giorno, approfittò del suo ruolo di cassiere per rubare dei soldi dalla banca in cui lavorava. Fu una decisione infausta; venne scoperto dopo pochi giorni. In virtù delle suppliche della moglie non lo denunciarono ma fu comunque licenziato. Lia lo lasciò portandosi via i bambini, non voleva che vivessero in una situazione del genere. Guglielmo non fece nulla per trattenerli, addirittura contento perché nessuno lo avrebbe più ostacolato nella sua attività febbrile. Arrivò a vendere l’appartamento comprato dopo anni di sacrifici e un po’ alla volta anche quei soldi vennero buttati nelle fauci del gioco d’azzardo.
Guglielmo ora era solo. Mangiava alla mensa di carità e dormiva in un ricovero, oppure nel rientro di una vetrina, per ripararsi un po’dal vento. Vedeva Lia e i bambini di rado. Si vergognava molto di questo, di non essere stato un bravo padre per loro. Li vedeva crescere e ammirava i loro successi nello sport e a scuola. Si rendeva conto di aver perso la parte migliore della sua vita ma non poteva farci nulla: tutto gli era chiaro fino a che non lo prendeva quella maledetta voglia di giocare e non si faceva trasportare nuovamente davanti a quelle macchinette. Le odiava ma non riusciva a starne lontano. Così ogni giorno.
Quel giorno Guglielmo finì i soldi un po’ prima del solito e si avviò verso l’uscita. Giulia lo vide avvicinarsi a lei, come uno spaventapasseri avvolto in una giacca molto larga e piena di macchie, magro da fare paura, gli occhi sfuggenti rivolti al pavimento.
“Guglielmo, come va? – gli chiese allegramente – Vedo che te ne vai un po’prima del solito oggi, hai qualche impegno?”
“E che impegni vuoi che abbia – le rispose tristemente l’uomo – nessuno più si interessa a me. Mi vedi no? Sono soltanto un fallito. Nemmeno i miei figli mi cercano più. Ieri il maggiore si è laureato ed hanno fatto festa ma non mi hanno invitato anzi, mi ha telefonato Lia per dirmelo ma mi ha chiesto anche di non farmi più vedere da loro. Devono costruirsi una vita ed un padre come me gli sarebbe solo d’ostacolo. Anche io lo so come sono ridotto ma lo stesso le sue parole mi hanno fatto un male terribile. Almeno fossi capace di smettere … E’ da ieri che ci penso. Per loro sarebbe meglio che fossi morto.”
Tirò un grande sospiro, le fece un cenno con la mano e si allontanò nella sera, fragile e piegato in due come se sulla schiena portasse un peso immane.
Anche Giulia sentiva un groppo nello stomaco. Quelle confidenze le avevano aperto una finestra sull’abisso in cui erano caduti alcuni suoi clienti e lei, volente o nolente, si sentiva un po’ in colpa per loro anche se continuava a ripetersi che erano adulti indipendenti e vaccinati e sapevano quello che facevano. E poi, era tutto legale. Lo Stato non avrebbe mai fatto il male dei suoi cittadini.
O no?
Una voce la riscosse dai suoi pensieri. Era arrivata una piccola comitiva di persone che chiese di sedersi sotto i platani. Giulia afferrò una spugnetta, diede in fretta una ripulita al tavolo, accese una graziosa lanternina, li fece accomodare, prese le loro ordinazioni e svelta svelta preparò il rinfresco. Poi, si sedette ad un tavolino in disparte e cominciò a scrivere su un notes l’elenco di ciò che doveva acquistare per il bar.
Il giorno dopo, si alzò con un vago senso di disagio addosso. Strano a dirsi, non si sentiva dentro la ormai consueta felicità al pensiero del suo locale. Rimuginava in continuazione la storia di Guglielmo in una continua altalena fra la colpa dell’uomo e le proprie colpe.
Riordinò la casa con più calma del solito. Per la prima volta non le dispiaceva arrivare sul lavoro in ritardo e questo era molto strano. Comunque, alla fine si preparò ed andò ad aprire il bar. Di fuori c’era un’ anziana signora che la aspettava con un’espressione un po’ ansiosa: Matilde.
Anche di lei Teresa le aveva raccontato molte cose. Piccola e magra, ingobbita dall’età, aveva ancora una folta chioma di capelli bianchi con sfumature violette sempre raccolta in un piccolissimo chignon sulla nuca. Ci teneva molto a fare bella figura, vestiva in modo ricercato e pulito: prima della pensione era una sarta molto apprezzata. Anche lei purtroppo era vittima di una dipendenza dal gioco con i gratta e vinci ormai da una decina di anni. Si era mangiata tutti i risparmi per questo, e non erano pochi. Poi si era venduta la casa e adesso dormiva e mangiava dalle suore. Le rimaneva soltanto la pensione e quella era dedicata quasi esclusivamente a comprarsi biglietti da raschiare nell’eterna speranza di fare il colpo grosso. A differenza di altri, capiva che questa sua dipendenza era qualcosa di deplorevole, si vergognava e così, come ogni volta, chiese a Giulia: “Buongiorno, mi dà venti euro di gratta e vinci? Sono per un’amica, non per me. Glieli porto io perché cammina poco, ci vede meno e non si fida ad uscire da casa”.
“Matilde, non le sembra che venti euro siano troppi? – obiettò Giulia questa volta – Non si vince mai niente con questi. Dica alla sua amica che se avesse messo insieme tutti i soldi che ha buttato via, quella sì sarebbe stata una gran bella vincita. Glielo dico contro il mio interesse ma mi dispiace vedere gente che si rovina per queste porcherie”.
Matilde si intristì e parve diventare ancora più piccola. Gli occhi le si riempirono di lacrime.
“Cara ragazza, non puoi immaginare come ci si sente. La mia amica capisce benissimo che sbaglia ma non ce la fa a smettere. Non ha nessuno che si interessa a lei e questa è la sua sola distrazione. Mi racconta che ogni sera si corica col proposito di smettere ma la mattina la voglia di giocare prende il sopravvento e la spinge a telefonarmi e mandarmi qui. Si sente molto umiliata per non essere capace di resistere alla tentazione. Secondo te, cosa potrebbe fare per liberarsene?”
Giulia non lo sapeva. Di fronte a quella confessione indiretta si sentiva impotente e sciocca, un’idiota che guardava con superiorità qualcuno a cui lei stessa provocava un grande danno.
Le faceva tenerezza, così fragile e demoralizzata. All’improvviso le venne un’idea e le disse: “Ha ragione Matilde, dev’essere una cosa molto difficile da realizzare, le dipendenze sono terribili e quasi impossibili da risolvere senza l’aiuto di qualcuno. Però, adesso lasciamo stare la sua amica e parliamo d’altro: qui al bar sono sempre da sola e a volte faccio fatica a seguire bene i clienti. Mi piacerebbe avere più tempo per fare due chiacchiere con loro ma il lavoro è tanto e non riesco a starci dietro. Ho pensato che avere qui un’altra persona che mi desse una mano non sarebbe male. Naturalmente, il lavoro pesante sarebbe tutto mio e questa eventuale persona avrebbe solo da star dietro alla cassa e fare due chiacchiere con i clienti. Per caso, a lei non andrebbe l’idea di aiutarmi? Si vede che è una donna sensibile e di cultura, proprio quello che ci vorrebbe qui.”
Avete presente quando una nuvola che copre completamente il sole se ne va all’improvviso? Quel passaggio repentino dall’ombra al sole? Il viso di Matilde passò improvvisamente dalla profonda tristezza per la sua situazione e la sua incapacità all’incredulità ed infine ad una gioia profonda.
“Davvero credi che sarei in grado di aiutarti? Mi piacerebbe tantissimo ma ho una certa età, forse vorresti qualcuno più giovane di me”.
“Certo che sì! Ti ho osservata molto in questi giorni: sei intelligente, spiritosa e conosci tante cose. Non c’è bisogno di un genio per fare due chiacchiere con gli avventori, basta qualcuno simpatico come te”.
“E allora va bene, se vuoi posso cominciare già da domani tanto la mia amica andrà in vacanza un mesetto”.
“Ottimo allora, ci vediamo domattina alle sette. Ci metteremo d’accordo sugli orari, non voglio portarti via troppo tempo”.
“Non ho altro da fare, per me posso stare anche tutto il giorno. Grazie Giulia, sei fantastica!” Con l’entusiasmo di un naufrago che si è visto tendere un salvagente, Matilde uscì dal locale. Camminava come se avesse dieci anni di meno, con la schiena dritta ed il sorriso sulle labbra.
Anche Giulia era contenta, sentiva di aver fatto qualcosa di utile, anche se aveva un po’ paura che il contatto diretto con i gratta e vinci potesse essere dannoso per l’amica. Più ci pensava, più si convinceva però che l’ispirazione di un momento poteva essere la scelta giusta perché Matilde era timorosa del giudizio degli altri e sicuramente avrebbe fatto di tutto per non fare brutta figura. Per lei quella era l’occasione per uscire dal suo isolamento e ritornare a crearsi rapporti ed amicizie.
I giorni seguenti diedero ragione a Giulia. Matilde si ambientò presto nel suo nuovo ruolo. Era la prima ad arrivare al mattino; Giulia la trovava sempre sulla porta ad aspettarla ed anche se la esortava a dormire un’ora in più la nuova amica rispondeva che le piaceva alzarsi presto e camminare quando le strade erano quasi deserte. Per i clienti divenne una presenza discreta, sempre pronta a scambiare due parole se vedeva che loro ne avevano voglia o a portare le richieste a Giulia che stava all’interno a preparare le ordinazioni. Capitò una volta o due che guardasse i gratta e vinci ma poi scrollando la testa dicesse: “No, la mia amica è ancora in vacanza”, sorridendo.
Iniziò un periodo abbastanza sereno. Una mattina Giulia ebbe una grande sorpresa: al mattino Matilde non c’era e lei rimase in pensiero perché era veramente strano che l’anziana non si facesse vedere senza nemmeno una telefonata. Verso le dieci però fece capolino nel bar una suorina timida: era venuta per avvisare che Matilde tempo prima aveva fatto domanda per una casa popolare e l’avevano convocata per l’assegnazione. Molto aveva giocato a suo favore il fatto che fosse riuscita a staccarsi dal gioco d’azzardo.
Un po’ lusingata dal successo di quella sua iniziativa, Giulia si convinse che in fondo forse bastava avere vicino qualcuno che ti volesse bene per riuscire a sottrarsi alla dipendenza; certo non per tutti era così ma tanti si potevano salvare. Confortata da ciò, cominciò ad accarezzare l’idea di rinunciare a gratta e vinci e slot machine e se ne convinse sempre di più. Certo, sarebbe venuta a perdere una bella fetta di guadagni ma le restava comunque da vivere abbondantemente. Meno soldi, coscienza più tranquilla. Ce la poteva fare.
Se le cose andavano meglio per la sua amica, per tanti altri proseguiva sempre lo stesso tran-tran. In particolare, c’era una signora che aveva circa quarant’anni che passava ore davanti alle slot machine. Ogni tanto veniva alla cassa con una manciata di monete (Teresa le aveva riferito che chiedeva perfino la carità agli angoli delle strade) a chiedere nuovi gettoni per alimentare la sua dipendenza.
Brutta storia la sua. Agata, così si chiamava, era la moglie di uno stimato professionista ricco da far paura. Da giovane lavorava come maestra alla scuola primaria ma con l’arrivo dei due figli era rimasta a casa, fortemente spinta a far ciò dal marito che voleva per i suoi figli un’educazione tradizionale. Lei acconsentì, dapprima di buon grado e in seguito in modo sempre più faticoso. I bambini cominciarono ad andare a scuola quindi si trovava a casa da sola per lunghe ore: per lei che era abituata a insegnare e ad essere sempre occupata era un supplizio, perciò ne parlò al marito che reagì bruscamente dicendole che non ne aveva bisogno tanto c’era lui che badava a tutti. Questo ad Agata non garbava per nulla, anche perché il marito aveva l’abitudine di dire ai figli che dovevano tutto a lui perché era lui che pagava cibo, vestiti, giochi, divertimenti, scuola e tutto ciò di cui avevano bisogno, mettendo in questo modo Agata in cattiva luce. Si sentiva una mantenuta, dipendeva in tutto e per tutto da quell’uomo che aveva amato ma che ora le sembrava un carceriere fanatico. Cominciò a giocare nella speranza di vincere una sommetta tutta sua per fare un regalo ai suoi bambini che provenisse proprio da lei. Purtroppo, un po’alla volta, cadde nella spirale del gioco compulsivo. Cominciò a sottrarre somme dal conto comune che aveva col marito fino a quando la banca non lo avvisò di quelle continue, inusuali uscite. Il marito le fece una scenataccia davanti ai figli, facendole subire una profonda umiliazione. Si fece promettere di fronte a loro che non l’avrebbe fatto più ma dopo qualche giorno lei era ancora lì a rovistare nelle vecchie nelle borse nella speranza di trovare qualche moneta per il suo vizio. Poi le venne in mente che avrebbe potuto chiedere in prestito dei soldi e lo fece; dapprima chiese a sua madre ed ai fratelli, spiegando che quel mese il marito si era dimenticato di lasciarle i soldi per la spesa; quando loro capirono che non era vero, si rivolse agli amici che aveva in comune col marito. Nella sua ingenuità sperava che non andassero a parlarne con lui ma si accorse ben presto che la notizia lo aveva raggiunto perché una sera tornando a casa trovò tutta la famiglia riunita in salotto, con l’aggiunta della madre e dei fratelli. Appena entrò capì che stava succedendo qualcosa di orribile: si avviò piano verso la sala. Quando la vide il marito la apostrofò malamente e cominciò a spiegare ad alta voce quello che aveva combinato ed i suoi fratelli si unirono a lui, dicendo che non doveva comportarsi così e che doveva essere grata che una “maestrina” qualunque come lei avesse trovato un marito che le aveva permesso di fare la bella vita senza fare nulla da mattina a sera ma che aveva sbagliato, avrebbe dovuto prenderla a calci e mandarla a lavorare nei campi che quello si meritava. La madre si mise a piangere lamentandosi che un’ingrata come lei non si era vista mai. Avrebbe dovuto baciare il pavimento dove camminava, quel poveretto, messo così in imbarazzo davanti ai suoi amici. Anche i suoi figli piangevano, rintanati in un angolo, e la guardavano con quegli occhi rossi e smarriti che le facevano male da morire. Scappò in bagno e si chiuse dentro, sconvolta e squassata dagli sforzi di vomito che la spaccavano in due. Uscì soltanto a notte fonda. Andò nelle camere dei figli che dormivano, diede loro un ultimo bacio ed uscì nella notte, scappando da quella casa che per lei era solo una prigione degradante.
Giulia non sapeva come viveva, dove dormiva, come e se mangiava. Non era mai riuscita a scambiare due parole con lei e nemmeno Matilde. Di lei conosceva soltanto lo sguardo febbrile di quando veniva a chiedere nuovi gettoni e le spalle contratte nel momento del gioco. Sapeva soltanto che da quella volta non aveva più rivisto i suoi familiari e se degli adulti non conservava un buon ricordo, i suoi figli le mancavano moltissimo.
Così fu molto stupita quando, una sera, verso l’ora di chiusura vide una giovane donna appoggiata allo stipite della porta: guardava verso Agata impegnata nel gioco con gli occhi che luccicavano. Dopo qualche minuto la chiamò: “Mamma …“Agata si raddrizzò come se fosse stata colpita da un fulmine e si voltò lentamente.
“Anna …”
“Mamma, vieni via di qui, torna a casa.”
Agata si avvicinò lentamente alla figlia. “Quanto ti sei fatta grande – le disse carezzandole la guancia. -Lo sai anche tu, non posso più tornare. Mi manca l’aria in quella casa. Perdonami. Perdonatemi. Vi voglio un mucchio di bene ma quello non è più il mio posto. Ora vai via per favore. Per il tuo bene” e la spinse dolcemente, indietreggiò di un passo guardandola mentre si allontanava singhiozzando.
Giulia quella volta non riuscì proprio a trattenersi. “Agata, che fai? Tua figlia è venuta a cercarti perché ti vuole bene e tu la mandi via così! Lascia perdere il gioco e valla a cercare, ha bisogno di te e tu di lei. Gli altri tuoi parenti ti hanno fatto del male ma i figli sono un’altra cosa, un amore così non lo ritroverai mai più e non puoi metterlo da parte per una macchinetta mangia soldi”.
Agata era rimasta interdetta a sentire quel fiume di parole e non trovò nemmeno la forza di reagire. Prese la borsetta e si allontanò in fretta nella notte.
Quella sera Giulia mise mano a tutte le fatture relative al locale, calcolando quanto guadagnava con slot machine e gratta e vinci, quanto ci avrebbe rimesso se rinunciava a quel brutto commercio che ormai la faceva sentire un mostro. Certo, ci avrebbe perso un bel po’ ma ormai il passo era deciso, all’indomani avrebbe avviato tutte le pratiche necessarie per disfarsi di quelle mostruosità.
Al mattino seguente si avviò baldanzosa e decisa verso il suo bar. Sentiva di aver fatto la scelta giusta. Quando fu nelle vicinanze del locale vide che proprio lì davanti erano ferme due volanti della polizia, un’ambulanza ed un capannello di persone. Si avvicinò col cuore in gola chiedendosi cosa fosse accaduto. Forse un furto?
Si fece strada fra la gente finchè non vide alcuni poliziotti che stavano posando un corpo su una barella. Mio Dio, era Guglielmo! La corda ancora gettata sui rami le fece capire cosa fosse successo: si era impiccato al ramo di un platano di fronte al bar. Era salito su un tavolino e da lì aveva lanciato la corda su un ramo robusto. Il resto si poteva immaginare.
Sentì le gambe che non la reggevano e si sedette, dando sfogo a tutta la sua angoscia: per Guglielmo, che aveva trovato la propria vita insopportabile, per se stessa, che non aveva fatto nulla per aiutarlo. I carabinieri maneggiavano un biglietto trovato lì vicino, l’addio di Guglielmo al mondo. Poche parole con cui chiedeva perdono a moglie e figli per tutto il male che aveva causato loro, involontariamente.
“Scusatemi, se potete. Sono stato un cattivo marito ed un padre peggiore. Vi ho abbandonati quando avevate più bisogno di me e so che danno vi ho causato. Vi ho voluto un bene dell’anima, anche se è difficile da credere. Ogni giorno ho pensato di smetterla per tornare da voi ma il gioco è sempre stato più forte di me. Non riesco a liberarmene ed è per questo che me ne vado. Ogni giorno è un’angoscia che si rinnova e non riesco a staccarmene. Vi voglio bene. Guglielmo”.
Dall’altra parte della strada, Agata impietrita fissava la scena con le mani sul viso. Giulia incontrò il suo sguardo disperato e triste e non riuscì a dirle niente. Matilde invece attraversò la strada ed andò ad abbracciarla, consapevole di quello che si agitava dentro di lei.
Quello che seguì fu un periodo molto strano. Per alcuni giorni Giulia non riaprì il locale e rimase a casa, intontita dagli avvenimenti e dal senso di colpa. Continuava a ripetersi che aveva aspettato troppo e forse non aveva preso seriamente il rischio che potesse davvero verificarsi una cosa del genere. Si sentiva responsabile dell’accaduto perché aveva messo a disposizione di Guglielmo gli strumenti che in qualche modo lo avevano spinto al suicidio. Dormiva poco e si svegliava a causa di un incubo ricorrente durante il quale rivedeva all’infinito Guglielmo che dondolava sotto il ramo. In quello stato la trovò Matilde una mattina che andò a trovarla. L’amica ascoltò i suoi rimorsi.
“Giulia, quando uno ha questa dipendenza non c’è nulla che si possa fare per distoglierlo – le disse. -Se tu avessi tolto prima le macchinette lui sarebbe andato a cercarne altre. Non è colpa tua. In queste condizioni ci vuole una molla forte che fa scattare il bisogno di cambiare. Per me quella molla sei stata tu, con la tua amicizia e la mano che mi hai tesa per uscire dal baratro del gioco. Guglielmo non ha avuto la stessa fortuna. La porta chiusa da parte della famiglia è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso”.
Quelle parole ebbero il potere di scuotere Giulia dalla depressione in cui era caduta. Ritrovò il suo carattere positivo. Si mise a ragionare su quello che avrebbe potuto fare per dare un senso a ciò che era accaduto. Fu presa da una forte frenesia di cambiamento: si disfò finalmente delle attività legate al gioco d’azzardo, ridipinse la parete sulla quale erano allineate le slot machine e la coprì di locandine pubblicitarie vintage, creando un simpatico angolino in stile belle epoque. Poi telefonò a Matilde, la mise a parte del suo progetto e chiese il suo parere. L’amica ci pensò un poco e poi le disse che sì, poteva andare.
Un mese più tardi, quando il locale riaprì per l’inaugurazione, i clienti abituali corsero subito lì, felici di poter riprendere le vecchie golose abitudini. Giulia aveva integrato l’offerta di consumazioni con centrifughe, frullati, frappè e alcuni deliziosi bocconcini salati. Una gioia per il palato dei suoi affezionati avventori.
Sulla parete di fondo, completamente rinnovata, era appoggiato un enorme tavolone di legno con due scaffalature colorate vicino, dove Matilde avrebbe accolto dei gruppi di persone interessate a svolgere lavori manuali sotto la sua guida. I manufatti sarebbero stati venduti ed il ricavato sarebbe stato devoluto ad associazioni che contrastavano attivamente la ludopatia. Era il modo che Giulia aveva pensato per creare aggregazione, combattere la solitudine nel quartiere ed allontanare le persone fragili dal pericolo del gioco.
La notizia piacque molto a tutti gli avventori che promisero di spargere la voce.
Verso la fine della festa, Giulia vide entrare anche Agata, a braccetto con la figlia. La donna sembrava più ordinata e serena. Si avvicinarono a Giulia e Agata disse: “Grazie per quella sera che hai avuto il coraggio di parlarmi e farmi capire a che punto fossi arrivata. Il giorno dopo ho telefonato ai miei figli e ho riallacciato i rapporti con loro. Sono andata ad abitare nella vecchia casa di mia madre, che non c’è più. Per il momento sto là, poi si vedrà. Ho lasciato mio marito ma i figli ora sono venuti a stare da me. Siamo finalmente sereni ed è tutto merito tuo. Mi piacerebbe darvi una mano nel vostro nuovo progetto insieme ad Anna”.
Giulia toccava il cielo con un dito. Le disse che sì, certamente erano benvenute. Guardò Matilde e sorrisero insieme, forse pensando la stessa cosa: Agata aveva finalmente deciso di mettersi in gioco: quello giusto, stavolta.
Scritto da Paola Lorenzetti